Vivo in un seminterrato. L’unica finestra di questa stanza che mi vede svegliarmi, partire, tornare, dormire, mangiare e fissare il vuoto si apre su un incrocio tra due strade antiche e mediamente calpestate, con lo sfondo di qualche rudere in parte pubblico, in parte inglobato in proprietà private. L’altezza del mio affaccio arriva alle caviglie, non oltre. Il telaio della finestra, in alto raggiunge le anche di qualche piccola donna o piccolo uomo e le ginocchia di passanti più slanciati. Se passa un bimbo, raccolto e incurvato, incuriosito da una lunga coda di formiche infilate, allora la finestra lo inquadra tutto, come una cornice. La mia finestra oltre che le loro scarpe, i calzini, gli orli, i lacci delle scarpe è capace di inquadrare quel breve momento, fatto di pochi passi, in cui i passanti ci passano di fronte. Quest’oggetto vuoto fatto per vedere, mi apre un istante e incornicia per me le loro parole. A volte le loro confidenze.
Presto al mattino le confessioni dei bimbi alle mamme “Non ho fatto storia!”, “E adesso?”, risponde la mamma. La scuola è oltre una svolta a quattro metri dalla mia finestra. Svoltano. E io non so mai come finisce la storia di questi bambini. La storia della storia mancante.
La sera ci sono le confessioni romantiche: lei a volte torna a casa e chiama un amico, un’amica, racconta che lui non ci sa fare, che lei sperava ci ripensasse, che lui è cambiato durante la serata, che il film faceva schifo, che lui era ancora meglio di come immaginava. Lui una volta è tornato e le ha chiesto di scendere, lei e scesa, titubante e lui le ha riportato una maglia. Lui se n’è andato e lei ha richiamato l’amica. “Era per la maglia. Che palle.”.
Di pomeriggio: quelli che si perdono: “Ma non era di qua?”, “guarda che il Tevere è da quella parte, guarda su Maps”. Ma dove finiscono non lo so mai. Provo a porgere l’orecchio, ma sento che si allontanano e il luogo che menzionano è sempre dal lato opposto rispetto a dove sparisce la loro voce.
Lo stesso vale per le telefonate, rapide, mozze, senza interlocutore. Portano intere famiglie in questo pugno di metri cubi della mia stanza. “Lo sai bene qual è il problema…”. “Io no, qual è?”, vorrei urlare interrogativo anche io dalla finestra. Invece tutte queste storie spariscono.
I miei preferiti sono gli amici. I compagni di calcio. “Io non sono bravo a letto, ma non è che glielo posso dire io”, “Va bè, nessuno è bravo. Ci proviamo tutti”. “Hai visto che bestia Luca, che spalle. Io mi sembro Pinocchio”. I ragazzi -tra loro- con poche parole, immagini semplici e a volte dure si confessano, nel buio, l’inconfessabile. Quello che, se questo non fosse un incrocio di vecchie strade con poche silenziose finestre basse puntate alle caviglie, non direbbero mai. Quanto scotta il fuoco, quanto gela il ghiaccio dei giorni senza lei, senza scuola, con il peso degli impegni, senza niente da fare. A volte non odo risposta. Sento una pacca sulla spalla “Daje, fratè”. Per pudore talora accosto le imposte. Sono un abitante curioso ma mi sciolgo quando le storie si fanno vere da toccare.