Scarpe rosse

Quando ero un liceale, e ancora per qualche anno a seguire, avevo non più di due paia di scarpe. Uno per correre e uno per camminare. Tutte le mie scarpe erano nere. Il paio per camminare era pesante, con la punta rinforzata in ferro, di pelle lucida e spessa. Quando queste scarpe si invecchiavano, si scollavano o se ne consumava la pelle: le cambiavo, con lo stesso modello. Queste erano le mie scarpe per camminare. Ci camminavo la mattina per andare a scuola, ci camminavo con gli amici nel pomeriggio mentre mangiavo un gelato, ci andavo a lezioni di pianoforte, ci andavo d’estate in spiaggia, ci sono andato al battesimo delle cugine, al matrimonio dell’amica di famiglia, al mio esame di maturità e qualche esame universitario, al funerale del nonno. Perché in queste attività non c’era da correre, c’ero io, un luogo in cui essere e le mie scarpe per camminare.

Il secondo paio era un paio di scarpe da ginnastica, che, senza mai sostituirlo con un gemello, come nel primo caso, ho usato a lungo: poco di frequente negli anni di scuola, molto di più in seguito, quando fuori da quelle mura, ho scoperto il piacere di fare attività fisica. Erano scarpe semplici e morbide e facili da indossare. I lacci, verso gli ultimi anni, avevano le punte sfilacciate e se si sfilavano per un impeto nello scalzarle erano guai, ma avevo un metodo infallibile che comprendeva del gel per capelli e una bacchetta cinese. Non esistevano video hack da consultare e bisognava cavarsela con un po’ di creatività. Indossavo le scarpe per correre per imposizione; solo nei giorni in cui c’erano lezioni di Educazione fisica. Mi vergognavo di camminare tra le persone per andare a scuola con le mie scarpe per correre, come fossi un invitato a un matrimonio, ma con le scarpe sbagliate, tremendamente sbagliate. Se parlavo con qualcuno quel giorno, prima od oltre l’ora della ginnastica a scuola, nascondevo i piedi sotto la sedia o l’uno dietro l’altro, perché il fatto di scoprirmi calzato di scarpe non mettesse in pericolo la credibilità delle mie parole.
Nel tempo qualcosa è cambiato e ho iniziato a calzare le mie scarpe per correre non già per dovere, ma per piacere; non più con vergogna, bensì con spirito d’impegno. Ho iniziato a portarle in uno zaino a parte, mentre ai piedi indosso le altre, quelle fatte per parlare con la gente e nello zaino porto il mio impegno con me stesso di correre, di fare qualcosa per me. Quanto alle mie parole, quelle decollano vere e atterrano in terre che ignoro, nonostante le mie scarpe.

Oggi, certo tempo dopo, non ho più solo due paia di scarpe. Non ho più solo due modi di camminare, né di presentarmi. Oggi, che non ci sono più orari scanditi da campanelle, né aule, né sedie dal fondo di legno per nascondere i piedi, ho tante paia di scarpe di diversi colori e fogge. Oggi che non ci sono più solo chiare imposizioni e impegni ufficiosi, ma numerose sfumature da non cogliere, messaggi caduti nel vuoto e seconde letture su cui costruire speranze…oggi ho tante paia diverse che non mi somigliano. Qualche paio ha dei dettagli che non sopporto, ma so che è il paio giusto per fare -ad esempio- un colloquio, mi dà l’aria giusta: lascia pensare di me che ho difetti che non ho e certi pregi, che in realtà non vorrei avere. Qualche altro -forse il mio preferito- è un paio di scarpe rosse che resta nascosto in una scatola per giorni interi e ne fuoriesce il sabato mattina, perché dice:
“È il weekend. Sono libero!”.
Ho un paio di scarpe serie che dice “Sono triste, ma sono un uomo grande e sono qui per sostenerti”. Altri dicono: “È una bella festa, ma non resterò a lungo, voglio tornare sul mio divano e aspettare il sonno”, “Volevo essere elegante, ma mi sento uno straccio e le vere scarpe eleganti non sono volute venire con me, in queste condizioni”.

Qualche volta, quando sono in campagna e ho del tempo libero, ho voglia di togliere tutto. Pesare la pianta dei piedi sul fondo del prato secco e vedere gli insetti che passano ignorando la mia presenza. Ho voglia di sentire il caldo della terra. Questo è quando non c’è né da camminare, né da correre, né consolazione da offrire, né un ballo da ballare e regna il silenzio e l’anima è ferma sotto il soffio del vento.