A Roma, nei vagoni della linea A c’è un ragazzo che cammina lento. Cammina in uno spazio travolto dalle persone, con i piedi cerca uno spazio per sé, per poggiare la pianta della scarpa tra gli zaini lasciati a terra e le ruote dei passeggini, trasportini di gatti e i lunghi tubi che usano i giovani architetti per portare con sé i propri progetti. Si afferra ai pali orizzontali usando le mani come ombrelli appesi a una staffa. Quando trova un punto di equilibrio, libera un arto dal proprio peso e muove un nuovo passo, in bilico tra brusche frenate e partenze distratte; in una folla di passeggeri che si muove inconsciamente, sospinta da un ritmo incostante ma incessante, come la polpa densa di una zuppa quando l’acqua vuole bollirci dentro.
Nell’aria sintetica del vagone c’è una città di capi chini, molti leggono dal proprio telefono, alcuni (i bambini e gli anziani) si guardano la punta delle scarpe, annoiati, o talvolta si sforzano di guardare gli altri per capire cosa facciano, ma non è chiaro a nessuno. Se sei felice, di fretta, ben vestito o piangi nessuno se ne accorge in metro, qui neppure il vicino più prossimo. È tutto un mischiarsi di priorità che ognuno conosce e non dichiara, un susseguirsi di permessi esatti senza essere chiesti. File disattese. Urgenze spezzate.
Nella metropolitana di Roma le voci si levano singole e distinte. Puoi seguire le storie di ciascuno, se sei curioso. Se invece non ti getti in nessun racconto ne esce fuori un abbaiare di cani intollerabile. Senti una storia gridata, ma fratta, mal mescolata, un pasticcio di dialetti raccolti da ogni angolo del mondo. Si aggiungono gli urli acuti degli infanti, il reggaeton, il sottofondo dei videogiochi da telefono e le suonerie degli anziani che suonano per decine di minuti finché questi, sorpresi come da squilla di tromba in un silenzio assoluto, iniziano la lunga ricerca in borse, borselli, sacchetti, custodie e astucci per poi non fare in tempo e restare a guardare con occhi piccoli lo schermo di luce fioca d’un telefono d’altri tempi. A ogni movimento necessario, in metro ne consegue un altro; i movimenti inconsulti, inaspettati -i cambi d’idea- sono osteggiati, trovano opposizione nella rigidità della moltitudine. In metro, dove non c’é spazio per nulla, è possibile carezzare delicatamente la guancia del proprio amato, ma non tirare fuori di fretta un fazzoletto dalla tasca per accogliere uno starnuto.
In tutto questo brulicare, con un peculiare moto ondulato, si muove un ragazzo moro, di circa vent’anni, abbigliato di abiti più sportivi dei suoi movimenti, con i calzoni corti e scarpe da ginnastica nere. Nell’attraversare la folla rompe la norma del vagone e ti sfiora le spalle, richiama la tua attenzione, ti guarda negli occhi e ti dice: “Scusa!”. Ti chiede scusa in un istante che ferma il tempo e dura niente e dura troppo, perché non sai chi sia, non comprendi cosa accada, mentre lui ti è già entrato dentro e ha messo in ordine qualcosa. Quando ti risvegli e riprendi la posizione originale lui è già qualche metro avanti e offre altri il suo “Scusa!”. Volta la testa di continuo, come se ci contasse, come volesse dire “sapevo che ti avrei visto, eccoti qua!”. Come quando si cerca qualcuno a una festa. Sul suo viso non c’è serenità, c’é la necessità di scusarsi di farlo con tutti e di usare quell’occasione per legare un piccolo nodo a un laccio sciolto della nostra coscienza.
Non so cosa porti un giovane ragazzo, il capo coperto di riccioli tondi, a muoversi rettilineo tra le statue rinchiuse nel vagone. Non so per cosa si scusi, disconosco il suo cruccio, non so che fine faccia, una volta finita la giornata, di quelle mani piene di persone e di sguardi basiti. Ma ogni tanto ci penso alle sue scuse e quando lo reincontro le accetto e ricordo di portare le mie a chi devo. Forse è lì per ricordarci la parola “scusa”. Forse non lo dice a noi, non porge le sue personali scuse, ma ci dice “se hai smesso di chiederlo perché non ricordavi la parola, te la ricordo io: la parola è ‘scusa!’, ora vai e fanne buon uso”. Forse per questo cerca con gli occhi ciascuno, forse sa distinguere chi la ricorda e chi ha delle scuse da fare, appese alle linee degli occhi. Cercherò di non dimenticarla la parola, ma spero di trovarlo ancora. Lui e la sua nobile missione.