Passa il tempo.
Questo tempo strano che
ci tiene lontani.
Lontani e basta.

Ma i genitori lontani
dai figli sono ancora genitori.
E così anche gli amanti.

I ballerini sono
ancora ballerini. 
E se i palchi sono vuoti
la danza li balla dentro. 

E dietro le finestre
e le porte chiuse, 
ci si ama ancora
e si trova la forza per un sorriso.

Mentre in terra e in cielo
c’è chi ci protegge,
chi dipinge, dipinge;
chi suona, suona;
chi canta, canta.

Anche se il mondo
sembra spento,
la Vita vive.

Passa il tempo.
Questo tempo strano che
ci tiene lontani.
Lontani e basta.

Ma i genitori lontani
dai figli sono ancora genitori.
E così anche gli amanti.

I ballerini sono
ancora ballerini. 
E se i palchi sono vuoti
la danza li balla dentro. 

E dietro le finestre
e le porte chiuse, 
ci si ama ancora
e si trova la forza per un sorriso.

Mentre in terra e in cielo
c’è chi ci protegge,
chi dipinge, dipinge;
chi suona, suona;
chi canta, canta.

Anche se il mondo
sembra spento,
la Vita vive.


Per il Natale del 2020 Pollo si è fatto in 7. Si è scavato dentro e ha trovato sette posizioni del Cuore, sette moti dell’animo, sette modi e vie di rispondere alla Vita. Tutti buoni e giusti, primo su tutti l’Amore. Un Amore a braccia aperte, che lascia confusi, ma volenterosi di donarsi.

Poi la Forza, la Follia, il Coraggio, la Calma, la Pazienza e la Passione. Ognuno ha una Guida, un’emozione trainante. Pollo, come Spirito Guida, cammina con il cuore in mano e non disdegna nessuno dei suoi colori.

Per il Natale del 2020, Pollo si è impresso su maglie e tazze per donare il suo messaggio di pluralità e Cuore, per vegliare da dentro armadi e mobili sui moti dell’animo e le pulsioni di ognuno.

Pollo ha buoni progetti. E non ha paura di usarli.

Beblessed!

C’erano piccoli momenti condivisi in cucina. Nei giorni di festa o d’estate, in attesa di invitati o di un pomeriggio ad oscillare tra il divano e l’ombra del giardino.

C’erano piccoli momenti e c’era un piccolo me. Ero di certo alto abbastanza da arrivare al tavolo della cucina, ma non abbastanza da ricordare oggi, di quei momenti, più delle mani di mia madre. Mentre queste afferravano il sacchetto di carta marrone e tiravano fuori le verdure da tagliare, restavo incantato a guardare i movimenti delle dita, della lama grigia, delle carote decapitate e le lattughe gambizzate.

In ginocchio su uno sgabello, con l’altra gamba a penzoloni, in spregio a qualsiasi norma di sicurezza, tenevo il peso sui gomiti, affacciato sul tavolo della cucina come fosse stata un’ampia finestra aperta su un giardino da contemplare. Alle volte mi prestavo a piccoli lavori di supporto: lavavo la lattuga, asciugavo le verdure lavate, mi arrampicavo per tirare giù i condimenti. Lavare e asciugare l’insalata nella centrifuga, era di gran lunga il lavoro che più amavo. Era un’operazione di una certa complessità, di cui avevo imparato a memoria la sequenza esatta dei movimenti e che includeva una quota di mistero, un luogo chiuso, un moto rotatorio e una parola sdrucciola a compiere il rituale.

Fuori il sole scaldava le piastrelle rosse del patio e c’era un gran via vai di persone dalla spiaggia. Nel nostro giardino c’era la quiete più assoluta e un desiderabile fronte d’ombra sotto le chiome curve dei pitosfori assetati. A volte facevo delle incursioni fuori nel patio per raccogliere un rametto di rosmarino o perché una voce sconosciuta mi incuriosiva.

Terminate le scorribande all’esterno, tornavo allo sgabello e ai rituali della cucina: fini fettine di finocchio piangevano e inzuppavano il canovaccio; le carote mostravano a tutti la loro anima chiara e lunga, che le attraversava da capo a fondo; al rosmarino si depilavano le lunghe e magre zampe e di tutta la sua presenza non si usava che quell’ispido velo che profumava di mare. Come in tutte le grandi opere, avevo un nemico. Il pomodoro.

A me in fin dei conti il pomodoro era simpatico: paffuto e dolce, mi rallegrava l’insalata. Ma aveva un vizio stramaledetto che non mi spiegavo. Usciva rotolando dal sacchetto di carta marrone e si avvicinava panciuto, ma a volte finiva per mostrarmi il lato sbagliato, ossia quello su cui quel vegetale criminale offriva ospitalità a un essere del tutto estraneo. Il ragno.

Quel ragno gli viveva proprio in cima al capo, al pomodoro…come fosse un cappellino infestato, con le zampe tutte contorte e inamidate. Quando uscivano i pomodori restavo guardingo. Sapevo come sarebbe finita. La mamma li prendeva, li lavava e io guardavo le sue mani dalle unghie rosse e lucide, maneggiarli con destrezza. Poi li afferrava dal di sotto e con la mano opposta afferrava tutte insieme le zampe del ragno e d’un colpo, dava uno strattone. Lì dove il ragno si era stabilito, chissà da quanto, restava un segnaccio, un morso esangue che non si cancellava più.

Ora, complici le lunghe giornate libere e una mia reticenza a nascondere gli stati d’animo da quel momento di scatenava un putiferio. In parte lo attendevo, in parte temevo quello che stava per accadere. La mamma, forse punta da quel ragno in cima al pomodoro ne afferrava uno e a poco a poco alzando la voce, gridava: “IIIIL RAAAAAAAGNOOOO!!!”, io saltavo dallo sgabello e correvo a rifugiarmi sul divano, sotto un cuscino. Il suo braccio brandiva il picciolo contorto e terrificante e si intrufolava nel mio nascondiglio. Allora saltavo dal divano verso la cucina e andavo al secchione perché lei tornasse in sé e ricordasse che era il caso di gettarlo.

Finivamo quella breve lotta entrambi concitati, spettinati e con le guance rosse. La mamma rideva tanto e anche io, soprattutto perché sapevo che alla fine mi spettava un bacio. Mentre la mamma si avvicinava le guardavo le mani per assicurarmi che non ci fossero ancora sorprese in giro e di corsa guardavo nella pattumiera e lanciavo uno sguardo di sfida al ragno che giaceva acquattato nell’ombra del sacchetto della spazzatura tra scorze di vegetali imputriditi. Avevo di nuovo vinto la battaglia, ma la nostra era una guerra aperta.

Quei pomeriggi e gli sguardi e i gesti ancora li vedo quando mia madre cucina, prepara qualcosa. Non sono più scappato dal picciolo del pomodoro da quando mi sono arreso ad alcuni compromessi da adulto. Ma a quelle risate e alle fughe in calzini verso il soffice divano ci penso sempre e penso che per questo, come per molte altre cose, guardo a quell’antico nemico come a un segreto alleato, custode di una memoria sacra che conserviamo e proteggiamo in due, con un patto solenne, da uomo a ragno. Da figlio a madre.

21/6/1987 – Sembra ieri

Ricordo, ma non per forza, di aver cantato sempre: in casa, in automobile, in vacanza, sulla strada di scuola. Ricordavo le parole, ma non per forza, e le cantavo come fossero una formula incantata, filata e tessuta da qualcuno di lontano e lasciata accanto a me perché io me ne cibassi. Ricordo la melodia, ma non per forza, e se non la ricordo affatto ci giro in torno finché tra tutto quello che ho cantato non resta che cantare quello che non ricordo.

In un ampio salone assolato, accosciato, sceso in basso fino al testolino distratto di un bimbo paffuto, Giovane Padre cerca le parole per spiegare che la voce può essere scritta su un nastro e riavvolta, tante volte, a piacere. Bambino lo guarda con stupore, vorrebbe mettere insieme le parole e capire, ma sono tante, veloci e complicate. Seppure quello che dice resta un groviglio di suoni oscuri, tuttavia Giovane Padre sembra sincero, sembra avere buone intenzioni, è sorridente come sempre e il sole del salone gli illumina il volto e i capelli chiari. Bambino decide di fare come dice.

Giovane Padre controlla il registratore, già preparato sul tavolo bianco: il nastro, il cavo, il volume. È il momento di premere Rec, ma prima, per un istante, getta uno sguardo verso Bambino che a sua volta si guarda intorno, sognante. Giovane Padre si augura che non sia un altro tentativo a vuoto, altro nastro tappezzato di ricordi da niente: un mugugno, un capriccio, la risposta a una frase della nonna, un giocattolo che cade e fa un rumore secco. Ma oggi ha una buona sensazione, forse è il giorno giusto e Bambino sembra calmo e deciso a cooperare.

Basta. Si preme Rec. Ciak, si canta. I pomeriggi ad ascoltare la musica e cantare con l’ultimo boccone della merenda stretta in mano sono lì ad un passo da diventare un ricordo per il futuro. Giovane Padre e Bambino si guardano negli occhi. Ecco quella canzoncina che accompagna le passeggiate nel verde e il piccolo tratto in salita verso casa della nonna. La voce chiara e svelta di Giovane Padre è un invito a cantare, e Bambino non si fa pregare. Canta. Le parole si fanno un groviglio, di nuovo, ma stavolta non importa perché c’è la musica di mezzo, che è una cosa speciale tra lui e Giovane Padre: è una sostanza che li unisce e li invischia come fa la glassa lucente sulla frutta di una bella torta di compleanno, che a guardarla di sfuggita sembra imperlata di gioielli.

Qualche momento più tardi è un’estate di molti anni prima. Il motivetto è comodo da cantare. Per Bambino nessuna di quelle parole ha un senso, cosa siano i “papaveri”, i “batussi”, il “pattino” alla fine non importa, ma quella cosa di cantare insieme è davvero bello e a lui e Giovane Padre viene proprio bene.

Giovane Padre si discosta un poco, allunga un braccio verso il registratore, mentre con l’altra mano tiene Bambino. Questi prosegue la canzone così come gli viene, ma un raggio di sole lo abbaglia per un istante, così la melodia si interrompe bruscamente. Bambino si protegge lo sguardo con la manina. Giovane Padre prima di premere Stop infila gli occhi per un istante nel futuro, e parla a tutti i padri che sarà un giorno e a tutti gli uomini che un giorno sarà Bambino. Così, come in un film di fantascienza, ferma un punto nel tempo, con un ago in mano cuce un punto in un giorno del 1987 e tira tanti fili quante saranno le occasioni di ascoltare questo estratto, tessendo una tela di fibra forte, tirata da un salone assolato al settimo piano di un palazzo di mille ricordi lontani.

Siamo una promessa,
la seconda parte di una frase detta da qualcun altro,
il moto di ritorno di un’intenzione,
e non siamo nessuna invenzione.

Se ogni cosa possibile
somiglia a un punto che vaga,
quello che esiste davvero
non è più un punto, ma un centro.

E un centro da sé non è niente,
ma è il centro di un filo di sguardi
puntati su un punto solo,
da solo contro miliardi.

Siamo puro compimento,
il terzo atto, scontato,
di una breve commedia perbene,
di cui siamo il finale agognato.

Siamo un gesto fortuito
che riporta al pensiero
i dettagli di un sogno notturno
dall’oblio mattiniero.

Siamo vivi per miracolo,
appesi a un pensiero fra cento
che ci coglie dalla terra gremita
con un gesto lento.

Siamo la sola occasione
che ha la fragile idea di noi
di non cadere e finire
tra intricati corridoi.

La differenza sottile
tra restare e sparire.

Siamo il labirinto che divide
l’inizio dalla fine,
un miraggio dalla vita,
la cui fine è l’unica uscita.

Pollo in genere non parteggia per nessuna nazione…fosse per lui saremmo tutti fratelli di uovo!…Ma a volerne parlare a Pollo l’Italia piace. È un paese di Cuore, in cui si mangia bene, si crea e si prega…ma tanto estro a volte sfocia in una stupida creatività, che intende soppiantare le leggi e la buona etica.
Calpestare un’aia piena di fango (per essere buoni…!) rallenta il passo anche del Pollo meglio disposto!
Pollo guarda le notizie, osserva con occhio vigile e si gratta la cresta chiedendosi: “Italia, che succede? Anche dal fango nascono i fiori! Se ognuno si risolleva, ci alziamo tutti! Coraggio!” …Allora, a partire da Pollo ognuno oggi segua una regola che di solito trasgredisce! Vediamo se domani va meglio! Buona giornata!

A volte neanche a Pollo va di alzarsi e iniziare la giornata. Di alzarsi e scontrarsi col mondo. Di alzarsi e lottare. Di alzarsi e difendere la Pace. Poi il mondo arriva nel pollaio, sottoforma di un suono, una voce, l’odore del caffè. E Pollo sa che per quando dolore ci sia la fuori. Questo gioco è da giocare, con tutta l’anima, con tutta la velocità, la Forza, la Fede e le Intenzioni che riusciamo. Per tutti quelli che hanno ragioni più grandi per non voler più giocare, perché anche fosse per un solo istante d’Amore ricevuto in cambio, vale tutta la Pena nera di una Vita! Buona giornata miei Polli cercatori d’Amore.