Autore: Diego Romei
#pollocafe
E tu?
L’unico ciclamino di un bosco autunnale di foglie morte. L’ultima lacrima di rosa di un letto quieto. L’unica riga dritta fra mille righe coricate. L’unico “sarò” in un mare di “sono stato”.
Senza timidezza, senza dubbi su come fare. Hai trovato il luogo, triangolato il sole, scelto l’inclinazione giusta che ti porti un rigagnolo d’acqua senza annegarti, odorando, con fiuto di semino il terreno coperto di marroni foglie arricciate.
Proprio quando non c’è niente, ci vuole coraggio. Quando non c’è nessun rumore, ci vuole voce. Quando nessuno chiede niente, bisogna avere le risposte pronte, perché il tempo ci coglie alle spalle. Bisogna addestrarsi a salire veloce per quando ce ne sarà bisogno, proprio quando non ci vuole nessuno. Perché potrebbe non servire mai, ma se servisse e non fossimo pronti alla vita, la vita ci guarderebbe con sguardo deluso.
E per decidere il colore non ne servono mille altri, né buone sincromie, ma uno che ci si confaccia. Conviene scegliere il colore che ci somiglia, poiché nessun altro sarebbe più giusto di uno che viene da dentro. Come una nota stonata, ma cantata con il cuore e con voce mossa di pianto.
Così nasce la vita in mezzo al nulla. Non richiesta, bensì ingenita.
Si spinge fuori con forza di montagna e caccia la punta del capo prima ancora degli occhi e segue spingendo quando ancora non ha neppure visto cosa c’è fuori, chi l’aspetta. Se mai c’è qualcuno che aspetta. Cocciuta è la vita, che tace e agisce, non deve, né offre risposte a nessuno. Conosce una strada sola. Una che va verso avanti, verso fuori, verso la luce…
Così, in un bosco che crepita di foglie addormentate, ho visto un ciclamino tirarsi su forse un po’ incoscientemente, coraggioso di certo. Come quegli amici che sono sempre fuori luogo, che stridono ovunque siano e non sai se siano controtempo per opzione o maledizione.
Quanto a me, io ero solo di passaggio. Ho alzato il capo di meraviglia e l’ho chinato per rispetto, come un’ode a quel coraggio di ciclamino. Che tra le ombre di foglie morte non ha fatto un gemito, né un gesto. Con lo sguardo fisso al cielo, se pure mi ha visto con la coda dell’occhio, mi ha visto solo passare, fermarsi e sparire di nuovo nel buio del resto del bosco d’autunno.
Omini di zucchero
I giovani operai lavoravano alla facciata esterna: le rifiniture, qualche ritocco e qualche rinforzo. La stagione era incerta, era stata un’annata difficile in tutto il paese. Gli operai si adattarono e affrontarono quel lavoro vivendo alla giornata. Raggiungevano il palazzo tutti insieme, stipati in un piccolo camioncino colorato. Scendevano, scrutavano il cielo e decidevano di mettere mano all’opera oppure, in caso di pioggia, rimontavano a bordo. Dietrofront. E si lasciavano alle spalle le malte madide, i trabattelli sparsi d’acqua e le pile di mattoncini puntellate di goccioloni.
Con quelle giornate birichine si era finito per avere non più di due o tre giornate di lavoro certi ogni settimana. La durata del restauro si era estesa oltre ogni previsione e a palazzo se ne faceva un gran parlare. Chiunque avrebbe preferito un vorticoso traffico di calcinacci e vernici aromatiche a dissestare tutte le stanze e squassare le abitudini e i silenzi della casa per un tempo breve, rispetto alla lenta e agonizzante cantilena di colpi che si ripeteva fin dalle prime ore dell’alba, o intere stagioni dietro finestre serrate, in un manto di fina polvere.
Gli operai erano affidabili, sereni e allegri, persino, non parlavano molto, spesso canticchiavano o fischiavano. Dovevano essere di fuori città, alle volte tiravano delle grida per indicare il proprio passaggio, ogni giorno ripetevano a memoria gesti tutti uguali. Mostravano altre volte un’ombra di timore e timidezza, forse una certa indolenza e comodità. Specialmente di fronte al meteo: bastavano poche gocce per vederli accorrere al camioncino e sparire fino al giorno seguente; similmente nei giorni di caldo estremo si rifugiavano all’ombra, cercando, con sottile urgenza, di rifuggire la canicola. E dal di dentro delle finestre chiuse del palazzo si mormorava.
A palazzo si decise di recuperare il tempo perso e reistaurare un po’ di disciplina, si conferí con il capocantiere e si decretò che gli operai si sarebbero mostrati più disposti a lavorare sotto un lieve gocciolio, più tolleranti con il bigiore o lo splendore di alcune giornate. E proprio di lì a poco si ebbe uno di quei giorni che iniziano nella luce e si vanno spegnendo. La ditta arrivò puntuale, lasciò il veicolo a lato strada e si dispose a lavorare. Fischi e grandi slanci di voci: “UUU”, “IIIIII?”, “EEEEE!”. Poi d’un tratto una nube imponente oscurò la facciata, e piombò il silenzio. Ma laddove normalmente gli operai sarebbero filati via correndo, proseguí il lavoro, dimesso, costante e per una volta, avvolto da una coltre d’aria umida.
Un vecchio inquilino guardando fuori e vedendo gli operai lavorare sotto la fitta e lieve pioggia si rallegró per la forza della gioventù che tutto sopporta e che in lui non dimorava più ormai da tempo.
Ma quei ragazzi, sorpresi dalla pioggia, non avevano reagito, si erano attenuti alle nuove direttive e a capo chino avevano continuato a levigare, pennellare e ritagliare tra le quinte dei ponteggi, quieti e tristi. Dentro il palazzo tutti videro la pioggia e sentirono i martelli martellare e le seghe segare. Dapprima ne rimasero stupiti, poi contenti e ben presto sembrò loro normale, tanto che non ci fecero più caso.
Giunse la sera in quel giorno di pioggia continua. Spuntò la luna e da palazzo qualcuno si affacciò e vide il camioncino degli operai ancora di fronte al portone, posteggiato. Nessuno aveva notato la fine dei lavori, né il rumore degli scarponcini rampicare con pesantezza giù dalle strutture di ferro, ma non se ne stupì. Ognuno, in fondo, era rimasto fermo a badare agli affari propri.
Piovve ancora fitto e lieve tutta notte e al mattino torno a splendere il sole. L’indomani, come ogni giorno, un plotoncino di bambini costeggió il palazzo per raggiungere la vicina scuola, rallentò e si fermò. Si raccolse tutto attorno un’ampia pozza che si era formata proprio sotto i colatoi e le grondaie. Larga, densa e per di più colorata, ambra, forse anche color miele.
Il più audace fece un passo fino al bordo e prima ancora che la maestra avesse il tempo di aprire bocca, vi intinse un dito e lo portò alle labbra. “Melassa!”. Gli altri bambini sgranarono gli occhi e si avvicinarono al liquido. Qualcuno tirò fuori una matita per raccogliere quella curiosa materia viscosa e farne una caramella da suggere via andando. Era saporita e sembrava fresca, era pura come pioggia che cade diretta sulla lingua, ma in più sapeva di mirtilli, di cannella, di zucchero a velo, d’agrumi.
Gli operai, nessuno li vide più; quanto ai bimbi, non dimenticarono mai quella giornata.
Mio
Cerco di vivere semplicemente, eppure sono circondato da oggetti, sommerso. Mi sono guardato intorno un giorno e mi sono chiesto: “di tutte queste cose, cos’è ‘mio’?”. Alcune cose le possiedo perché le ho acquistate, le ho scambiate con un po’ di denaro, con il tempo passato in silenzio a lavorare. Le ho scelte, indicate, cliccate e le ho legate a me. Altre le ho ricevute in regalo per un’occasione speciale: una lampada di sale per la Laurea, un porcellino di terracotta ad un compleanno, delle lenzuola effigiate con la Union Jack per un compleanno, un maglione dal Cile in un Natale lontano.
Tengo queste ultime cose, in particolare, con speciale affetto, anche se alcune non le uso neanche più. Sono la mia forza e il mio amuleto contro gli sguardi cattivi. Ovunque io vada sono la mia casa. Le ho scartate e ho ringraziato. È così che le ho possedute.
Ma c’è una cosa che possiedo più di ogni altra: un divano a righe bianche e gialle.
È nel salone e ogni giorno mi accoglie al ritorno dal lavoro, che io abbia vinto o rincasi sconfitto, mi abbraccia con lentezza. Rispetto alle altre cose che ho, il mio divano ha una storia sua. Una storia che ha avuto prima di essere mio. Una storia di cui ho fatto parte sul finale, come l’ultimo attore a entrare in scena, che recita meno, ma prende comunque tutti gli applausi. E lui è il mio applauso.
L’ho pagato con una moneta speciale: le parole, i ricordi, pranzi in giardino, confessioni, bisticci, abbracci, rivelazioni, dubbi. Sono andato a prendermelo e staccarlo dalla sua radice, dal portico della casa in cui ha dimorato per anni e l’ho portato via con il consenso dei suoi precedenti proprietari e forse anche un sorriso buono dal cielo.
È un divano viaggiante, il mio. Ho visto foto che lo ritraggono, in un tempo in cui ancora non lo avevo neppure ancora mai sfiorato, circondato dai volti di chi me l’ha concesso in dono, con generosità e fiducia. E lui con me ci è venuto, sereno e rassicurato. Anche noi due abbiamo fatto qualche piccolo trasloco. Insieme abbiamo sognato in qualche caldo pomeriggio estivo e ci siamo svegliati di soprassalto nel mezzo di un incubo, nel cuore della notte. Mi ci sono seduto arrabbiato, felice e sconsolato. “Come si dorme bene sul quel divano!” è la benedizione eterna che porto con me nel salone. Una magia fatta di ricordi non miei e nuovi ricordi da costruire.
Sarò certo testardo, incoerente, intollerante, verboso, emotivo, impulsivo; avrò fatto tanti errori; avrà pianto, si sarà preoccupato, arrabbiato, intristito più di qualcuno, più di una volta, per causa mia. Epperò, almeno una volta nella vita, senza dover celebrare nessuna occasione, oltre ogni schema, io ho meritato di portare via e custodire i ricordi di un divano di famiglia. Oggi scandisce tutti i miei giorni, è il mio destriero e io il suo cavaliere. La mia armatura è il mio pigiama e la mia arma più potente è il ricordo di quel giorno in cui l’ho preso sulle spalle e l’ho portato per sognare mille nuovi ricordi.
Quando qualcosa è nostro, diventiamo suoi e non c’è più possessore e possedimento, ma si diventa una storia comune e, un giorno, molte storie da raccontare.
Un buco
Alle cinque finisco di lavorare. Spengo tutto ed esco a correre proprio davanti al posto di lavoro. I vestiti di ricambio li porto con me dal mattino in un’ingombrante sacca scura: pedalano con me fino all’ufficio e aspettano quieti sotto la scrivania, come un cane annoiato che ronfa.
Preparo la sacca dopo la colazione, qualcosa viene dallo stendino, qualcosa dal cassetto della biancheria. Nella penombra del mattino in casa, quando di accendere le luci non ho voglia, né varrebbe a nulla perché non ho sufficiente attenzione.
Faccio tutto in silenzio: preparo la colazione, la consumo, scelgo i panni, mi preparo per la giornata, passo i controlli; a volte ascolto le notizie e le commento a mezza bocca, a voce bassa. Accendo il computer, saluto il collega in entrata se c’è già, o dalla scrivania, quando arriva. Passano le ore.
Finito di lavorare carico la borsa in spalla e mi chiudo in bagno. Mi cambio in silenzio, sento il frusciare dei vestiti sui vestiti, la zip della borsa, qualche maldestro colpo sordo di gomito contro la porta. Vedo il programma parato di buon mattino farsi presente.
“Mannaggia!”.
Quel giorno ho chiuso il coperchio del water per sedermi, osservare e pensarci su. Uno dei calzini di spugna aveva un buco. Di quelli piccoli che se non guardi bene, non li vedi; ma mentre li indossi senti che ci sono. Mentre cammini o corri li senti crescere e non pensi ad altro. Dopo il peso di ore in silenzio, una minuscola delusione che si scontra con la spinta necessaria a partire in corsa. Ho meditato di non andare. Molto più a lungo del necessario. Era solo un piccolo buco, ma sembrava una voragine nei miei piani.
A volte basta così poco, siamo attaccati con un filo sottilissimo al nostro equilibrio. Ci impegnamo perché tutto corra liscio, ma niente dipende da noi veramente. Basta un buco. Basta qualcosa di incontrollabile: la tensione di un filo non regge e si slega il legame. Come un disincantesimo di intenzioni. E la vita (s)decide per noi. Ci libera dagli impegni, rimette a noi il nostro tempo. Scioglie le promesse. Svuota di senso la preparazione, la preoccupazione, l’attesa.
La vita con un buco, con un’assenza, con un niente, ci chiama alla vita. Alla vita vissuta in un presente, che è fare con ciò che c’è e non con ciò che sapevamo ci sarebbe stato.
Quel giorno ho perso tempo, seduto sulla tavoletta del gabinetto a guardare il buco nel calzino. Ho corso male, poco, con fatica. Ero sicuro che alla fine avrei disfatto il calzino, ma così non è stato. Il buco è rimasto lì dov’era e non mi ha cambiato la vita. Ho convissuto con la sua presenza, con l’assenza di ciò che non c’era e la mia corsa per quanto imperfetta è stata mia.
Mawida
Mawida accoglie tutti, non guarda il colore della pelle, non chiede referenze né documenti. Se vuoi, puoi stare. Sa farti posto, silenziosamente. Mawida conosce milioni di forme di vita eppure sa di non sapere tutto. Si avvicina, sa sfiorarti senza farsi scoprire. Mawida comanda esseri che volano, che strisciano, che scorrono sottoterra, che nutrono, che catturano particelle piccolissime e ne fanno una nuova, alta vita. Mawida ha pazienza infinita, vive tutti i tempi. È sempre diversa; è sempre se stessa. Mawida conosce il codice segreto del mondo e vede ciò che non si vede. Ha uno sguardo di madre e molta fede. Ama le cose che accadono lentamente e tenta di abbracciare strettamente tutto ciò che può contenere. Ha un volto fatto di caos e un’anima santa e ordinata. Conserva la vita e la tutela sopra ogni cosa, ma come tutti gli spiriti saggi sa dire addio a chi ha esaurito il proprio tempo. Mawida sparisce in se stessa e sa chiudersi in un piccolo chicco di vita per mille anni e risorgere fragorosa cento pianti più tardi, dopo dieci generazioni di fedeli che hanno atteso. Mawida non soffre la fame, né il sonno, né il dolore, ma sa quando è il momento di nutrire, di dormire, di curare. Mawida è severa, ma le sue regole sono scritte nelle fondamenta della terra e seguirle, per i giusti, ha un costo molto basso. Mawida, che vede nel tempo, non condanna il figlio per il padre; né il passo per il piede, ma ha uno sguardo caldo di burro che arriva fino al bandolo di ogni matassa.
Mawida non è nata ieri. C’era quando l’universo era chiuso in un guscio d’uovo e non pesava più di un gesto pensato. Mawida è ferma e attenta. È pronta in ogni momento perché era lì nel buio del mondo e ne ha conosciuto il vero male. Mawida, piangendo, ha affilato armi letali e studiato strategie e agguati ineguagliabili. Mawida osserva. Ha dentro lo spirito di tutte le bestie più argute, che da essa hanno mangiato l’astuzia per divenire ombre negli angoli, occhi accesi nella notte, movimenti precisi e ineluttabile morte. Mawida sa dov’è nascosta la candela della vita e può soffiarci sopra, per salvare il mondo. Mawida è una sola, ma è il guardiano di ogni singola essenza. Quando ride accende la Terra e il suo respiro sa rinnovare tutto ciò che sembra perduto, ma non ride mai per niente e difende il suo buon nome senza mostrare pietà. Come una madre ti tiene sotto scacco con il filo di uno sguardo. È come un buon compagno di battaglia che sa usare le sue armi e per questo va stimato e temuto, insieme. Mawida non perde mai nessuna partita, perché con essa hanno un debito in sospeso gli spiriti più antichi del mondo e ogni suo sussurro è un’invocazione che non possono declinare. Mawida non sa odiare, per questo le sue pene sono giuste. Ha temuto e vibrato di paura, per questo sa vedere il timore in chi la offende e usarlo per scacciarlo. Mawida non ha un esercito. Mawida è un’armata, eternamente schierata dalla parte del bene.
*Mawida: parola mapuzugun che significa “bosco nativo”, “foresta”, “montagna”, “habitat di alberi, arbusti, piante spontanei e tutti gli esseri viventi a esso connessi”
Il galoppo della mucca
Mi piace sentirmi alternativo, più o meno quanto ogni altra persona. E come ogni altra persona, faccio alcune cose appositamente per storto.
Quando bevo il caffè non prendo la tazzina per il manico, mi scotto e mi incazzo, ma mi sento vivo.
Al ristorante, soprattutto se è uno di quelli con la puzza sotto al naso, ordino una Fanta. E se non ce l’hanno, sono io a storcere il mio.
Non ho un letto, dormo su un divano.
Ho visto Creta con la neve e i Carpazi in una calda giornata d’estate.
Porto l’orologio a destra.
Entro spesso in chiesa, ma poco all’ora della messa.
Porto le scarpe qualche numero più grandi del necessario, perché non mi piace sentire la tomaia che stringe le dita.
Sono cresciuto accanto al mare, ma non ci vado mai. Proprio mai.
Poi mi rendo conto che faccio alcune cose al contrario sapendo di farlo; che dentro ce l’ho al verso giusto quelle cose…che allora è tutta una storia da guardare dal di fuori e vale quel che vale. Ma il mio letto è così comodo perché per essere un divano è il divano più comodo del mondo. Ogni giorno mi ospito sul divano e ogni giorno sono accolto come ospite su un divano assai comodo su cui dormire. Ogni caffè preso è una sfida vinta contro il caldo, un sorso che scotta sulla pelle e che resta.
Così, in vacanza, mi ha dato un sorso di vita vedere il galoppo di una mucca. Lo sforzo che non è il tuo. La vita che fa un salto in te. Verso la luce o verso il buio, non importa cosa porti, ma è qualcosa che sa di stridore e di sbieco e di ultimo minuto. E ti fa sentire…fiù…salvo per un pelo.
Accanto alle placide mucche ruminanti e pesanti, quella si è sollevata da terra -appena qualche centimetro, lo ammetto- ed è stato come vederla volare. Alcune cose non te le aspetti e accadono comunque e senti di non essere niente: i tuoi calcoli, le cose del mondo che pensi di sapere, di conoscere, di saper leggere. Alcuni gesti non sai prenderli, spuntano dagli angoli della strada come uno sconosciuto che ti torna alla mente. E senti che tutta quella piccolezza ti fa stare comodo nel mondo, che sei il pezzo giusto per il vuoto lasciato.
È vero però che non tutto illumina allo stesso modo. Nelle crepe del mondo si nascondono strane bestie. Accanto all’amata vacca -volevo baciarla, tanto era bella- si ergeva enorme, cattiva e puntuta un’armatura di ferracci lucidati, alti fino al cielo, con cannoni e ganci e cavi e funi e travi e carrucole e motori e rigagnoli di liquidi bollenti: un’impianto da sci addormentato, nel culmine dell’estate. Come un mostro incantato da un intruglio impastato dalle arniche, le primule, gli Edelweiss e le ortiche del bosco. In incanto sicuro, certo, indissolubile, fino all’arrivo della stagione del gelo. Tanta potenza, altezza, rotazione e tanto slancio annientati dal caldo pacioso delle erbe secche e scottate che cantano assopite una ninna nanna cimbra.
Ci aspettiamo che accada, ci aspettiamo che non accada. Ci aspettiamo che lei ci sia, che nella stanza ci sia un letto, che l’orologio sia su un polso invece che su un altro. Che il rosa sappia di fragola. Che le cose pesanti stiano a terra e le cose enormi non si stanchino mai di macinare la propria forza. Mentre il mondo, all’oscuro delle nostre aspettative, compie i suoi artifici con fare sereno e si burla dei nostri pensieri muti.
In salvo
Sono qui, bagnato, incazzato e mi batte fortissimo il cuore.
Ero tutto contento e correvo dietro una mosca, ma è volata lungo il bordo e poi oltre, ho provato a zamparla ma una forza dalla terra mi ha tirato giù, con uno strattone forte e non ho potuto fare a meno di lasciarmi tirare giù. Cavolo!, Non avevo più presa su nessun punto.
C’era odore di pesce, era l’odore di qualcuna di quelle teste che odorano forte sui moli. Di solito mi accosto con la bocca e le assaggio, all’inizio l’odore mi fa uscire di testa, poi però mi abituo ed è buono. Resta forte in bocca e nella pancia e per un po’ non ho più fame. Oggi oltre a quell’odore c’era un suono, un borbottio lamentoso, un affanno. Ho trottato più veloce per vedere cosa fosse. E ti ho visto.
Devo trovare un modo per aggrapparmi a qualcosa, ma sembra tutto inutile. Odio quest’acqua che risale lungo i peli e arriva fino alla pelle, odio avere i peli tutti aggruppati in ciuffi e odio le gocce sulle vibrisse. Mi sembra di sentirle, le gocce, una ad una evaporare e riformarsi e scorrere come fossero macigni. Sono in panne, completamente: dal bordo della banchina spunta il suo muso. Pacifico, passa saltellando, si affaccia, dà un’occhiata e sgrana gli occhi, si lecca il naso.
Sì c’era un suono, sì l’ho seguito, sì ero curioso; ma quando ti ho visto, dio mio, mi è preso un colpo! Eri un affare piccolissimo, sapevo che eri un gatto di qua, dei dintorni, ti avevo visto mille volte girare con la mamma e i cugini. Sapevo che eri un tipo a posto, mai scandali, mai problemi, ma questa volta eri finito in una situazione allucinante. Non c’era niente, uno scalino, un cordino, una scalanatura: due pareti lisce e l’acqua che si muoveva.
L’ho guardato e volevo dirgli “Beh, che fai? Chiama qualcuno, fai qualcosa. Porca miseria, me lo devi far dire per forza? Va bene: Ho paura, contento? Ora l’ho detto”. I pesci si erano allontanati metri e metri di distanza già un secondo dopo che ero finito in quella situazione; buoni, quelli. Lui mi guardava con gli occhi strabuzzati, si stava agitando, sbuffava. Soffiava forte un fiato sempre più caldo, ad ogni istante.
Aspetta, devo fare qualcosa, devo tirarti fuori da tutto questo, forza sei un bravo ragazzo! Suvvia, non fare così. Uhm, guarda come sei agitato. Vediamo se allungo un pò, forse si vede meglio, un punto di partenza per tirarti su.
Zampetta avanti e indietro, come fosse al cinema. Vuoi i popcorn? “Gradisce una bevanda fresca?”. Quando mi agito grido, lo so. È più forte di me. Ma guardalo, si sporge e non fa niente. Mi annusa: “Mi hai preso per una sardina?”.
Allora, se mi faccio in avanti mi sbilancio. Che situazione, che situazione! Ahi, Ahi. Perché mi graffi? Sei arrabbiato, hai paura? Bisogna pensarle bene le cose, sennò poi succede un guaio.
Cagnaccio, puzzolente. Aiutami, in nome del cielo. Creatura cretina. Aiuto! Musaccio. Mammia mia, quel fiato!
Proprio messi male. Mi sa che non c’è nient’altro da fare. Hai ragione. Bisogna fare le cose d’impulso. Ti salverò. Quant’è vero che sono un cane. Siamo gente del porto e quelli del porto si aiutano! Arrivo, mi butto. Ti salvo!
<SPLAAAAASHHHHH (schizzi e spuma d’acqua ovunque)>
Eccoti! Ci voleva tanto? Bisogna che ti muovi di meno, altrimenti non riesco ad arrampicarmi e uscire. Per una volta questo pelaccio crespo serve a qualcosa, fermo, fermo!
Ce l’ho fatta! Mi sono buttato! Fosse l’ultima cosa che faccio, non mi importa. Lo salverò e saremo come fratelli. Inseparabili come gemelli siamesi e saremo i più ganzi del porto. Che fastidio tutti questi schizzi e come pungono quelle unghie, fratellino! Non ti preoccupare, ci sono io. Non importa se è difficile, io e lui ce la faremo, siamo in due e siamo una forza. Ecco il bordo, ci siamo quasi. Se mi metto così e ci facciamo coraggio ce la facciamo a uscire; certo, l’acqua è fredda e si muove tutto qui. Prima lui…poi io e poi via! Per nuove avventure!
Finalmente ti sei messo in una posizione sensata, un paio si passi in equilibrio su questo testone vuoto e sono fuori. Oplà. Pericolo scampato! Uff. Menomale che sono in forma! Un saltino. Là! Via!
Non lo vedo, è in salvo? “Ehi!” Urca, un momento, qui è più alto. Oh, issa. “Arrivo, eh”.
“Micioooooo!” Brrr, che freddo. “Micioooooo!”. Dove sei finito?
Micioo!
Mi…
La Vergine di corteccia
Sono uno di quelli che dicono di sì. Quelli che dicono di sì, ma non hanno capito un cazzo. Potrebbe dirsi che sia un bugiardo, ma lo sono in un modo specifico e ingenuo. La realtà è un po’ quello che mi sembra e a me piace raccontarla così. In fondo, non sono io a mentire alle persone, è la realtà a farlo con me. Troppa immaginazione e un tot di voglia di crederci.
Così, un giorno…In un parco, pieno di dislivelli e di piante che profumano vieppiù con l’aumentare del caldo dell’aria: sono vestito a puntino, canottiera tecnica, pantaloncini elasticizzati, scarpe comode. Sono venuto a correre, tanto per fare un po’ di movimento, per stare all’aperto, come si fa con i panni stesi fuori, che, poi, profumano di più e sanno di buono. È un percorso che conosco. Già fatto. Ma, un po’ per gioco e un po’ per spronarmi, vivo tutto come fosse nuovo. Quindi, di colpo m’inganno, cambio percorso e lo attorciglio, lo intrico per fingere di perdermi e poi di ritrovare, tronfio, il sentiero. Mi fingo di disconoscere un luogo che ho già visto per certo e di riconoscerne altri mai sfiorati e di sapere dove conduce il cammino che li costeggia: “Ah, sì, sì. Certo”.
Passo accosto a un silos diroccato, in dosso a una collinetta che svetta nel centro di una parco di brada campagna urbana, dalla cima si vede sino ai monti che circondano la città. Da qui, non certo le case, ma riconosco la forma dei paesuoli che punteggiano quei monti (o almeno così mi mento di fare), se fossi con qualcuno, direi: “Quello è…”, con aria seria.
Proseguo, noto dei folti arbusti di alloro (me lo dico con sicurezza: “Ah, l’alloro, sì”, mi avvicino, prendo una foglia, la annuso. A volte non sa di niente, altre della secca terra di cui è ricoperta, “sì, sì, è alloro” dico, come se qualcuno mi ascoltasse). Faccio un paio di svolte veloci, mi ritrovo sempre altrove, “Ora c’è…no”, “Ah, ecco, ora a sinistra e si ved…no”. Non mi faccio mai trascinare un po’.
Risalgo da dietro una cunetta e spunta il fianco di una costruzione antica, un casale, uno spiazzo e alcuni alberi che la circondano, gli eucalipti alti e frondosi fanno da muro, negli interstizi tra l’uno e l’altro intravedo scorci, ancora alberi, pietre sistemate in un vialetto. Mentre continuo ad avvicinarmi seguendo il sentiero curvo, tutti questi frammenti di immagini si muovono con me. Vedo la spalla di un muro basso, un vaso di fiori.
Vedo e ricordo. A destra della fila di eucalipti, uno spazio aperto e un cancello basso in ferro battuto rosso. Oltre un piccolo scalino a scendere, un viottolo di sassi tondi e lisci, buoni sotto la suola delle scarpe. L’aria è umida e nutriente e, dirimpetto al cancello, c’è un muretto coperto di muschio. L’aiuola che corre lungo il muro è stellata di ciuffi di fiori rosa. Nel mezzo del giardino, tra i ciottoli bianchi si staglia una piccola vecchia fontana di pietra, con un timido zampillo, ostruito dalla terra, da altro muschio, dal tempo. Nell’angolo opposto all’entrata c’è la padrona di casa: in una nicchia alta un metro e mezzo, circa, ritta in piedi, c’è una statua della Vergine, tutta bianca, con i dettagli un po’ sbiaditi, consunti dal vento e la pioggia, ma sorprendentemente candida. Ricordo di essere entrato con la mia dolce metà in quel placido giardino, di aver sorriso, insieme, alla statuina; di aver respirato con calma; di aver letto qualcosa insieme, una placca commemorativa, forse, di una suora vissuta lì, o di un miracolo per cui si rendeva grazie erigendo quel luogo di pace. Ricordo che ne siamo usciti guardandoci negli occhi, rasserenati.
Nel ricordare, rallento il passo. Svolto a destra per passare di fianco, per vedere l’ingresso, per vedere il muro dietro, per vedere meglio, per vedere cosa? Sono costretto a ravvedermi, non c’è nessun giardinetto. C’è uno spiazzo, e un cippo d’albero reciso, nel mezzo. Al suolo, la nuda terra, polverosa arida. È un luogo desolato. Non c’è un cancello, ma pietre su cui inciampare. Il muretto è una siepe scura e la Vergine, una macchia sull’albero nell’angolo sinistro dello spiazzo. Una macchia bianca sulla corteccia argentea, candida davvero. Un po’ allungata, certo, con la porzione superiore stretta e tonda, come un capo, certo. Ma è inutile giustificarmi, e con chi, poi? Il parco della Vergine non c’è. È stato una fumosa creazione, rapidamente assemblata e vissuta intensamente. Un ricordo vivido, un sogno ludico, un gioco onirico. Ci tornerò, magari non da solo e magari racconterò a qualcuno dal vero, dov’erano le cose nel mio immaginato giardino di pace. Vorrei dirlo ad alta voce, anche solo per sentire come suona. Come quando ti ripeti una parola, che non sai se l’hai inventata lì sul posto.
Mi vergogno un po’ che la mia mente mi menta tanto. Ma sono così, sono un bugiardo di un tipo specifico: è la realtà che mi mente e a me piace crederci.