Ero dietro la porta aperta.
Ero dietro la porta.

Non vedevo nemmeno la soglia,
ma mi tormentava il vento che attraversava l’apertura in affilata lama. Il gelo mi divorava la faccia e avevo le mani legate da non potermi schermare.

Dietro di me, il buio e una fioca luce sulle gambe senza forza. Tremulo, un raggio maggiore emanava e portava chiarore su altri lividi e segni di antichi tormenti.
Segni da non guardare. E io stretto ero contro il muro, col capo reclinato.

Eppure ero dietro la porta aperta.
Ero dietro la porta.

Sentivo solo l’odore di un luogo chiuso per sempre, come un scatola persa e piena di orrore. La vita mi ha toccato con lunghe dita ossute e ho perso forza nei ginocchi, così è stato per un momento: prendere un bus senza avere il biglietto.

Un nugolo di vespe pestilenti mi ha punto sulla nuca, per far dispetto e inoculare un poco ancora di veleno, ma sotto le messi del cielo seminate di stelle chiare si è acceso il freddo. E ho guardato il male negli occhi.

Ero dietro la porta aperta.
Ero dietro la porta.

Nessun laccio mi impediva di muovere le braccia né di spingere il battente o di muovere un passo. Ero dietro una porta che non dà su niente, né un giardino né un salone, ma non recide il cammino né taglia fuori nessuno. Una porta è un piano verticale su cui il viaggio non s’arresta, prosegue invece.

Serve spinta da forzare fuori fino a premere con la mano schiacciata contro il punto fiacco, in una porta. Serve forza per decidere se una porta ci resta fuori dal dentro cui aneliamo, o tiene dentro quando bramiamo espanderci e coprire l’immenso intoccabile e distante.

Un passo infilato oltre la soglia di una porta costa fatica infinita, uno solo passa galassie di fatti e costumi di sangue. Accompagna il coraggio per mano e sembra tenersi su un alito di fiato ma mangia i polmoni.

Un passo e tutto è come nuovo, o come prima, su un giro di tallone gira il verso del vento e tira forte verso qualcosa che si muove o su un cimitero di pianti sommessi.

Grazie al cielo, mentre ero dietro a una porta aperta ho sentito il tuono e sono entrato e dopo tutta la tempesta c’erano ancora giochi da fare e te da giocare.

Oggi non è un giorno qualsiasi. Non è come tutti gli altri, anche solo per come è cominciato. Dai primi gesti già si vedeva che le cose sarebbero andate diversamente dal solito. Forse persino qualche intuizione di ieri sera poteva far presagire: in frigorifero c’era della frutta comprata da qualche giorno, l’ho tirata fuori, per fare oggi una colazione diversa senza mangiare frutta troppo fredda, per non improvvisare.

Bi, bi, bip. Sveglia. Mi sono alzato e ho attraversato il salone, ascoltando il giornale radio come ogni mattina. In cucina c’era una luce tenue, la luce giusta per incominciare una giornata dopo ore di buio, con le palpebre serrate strette tra loro e ricamate di sogni leggeri. Il pavimento era freddo e un brivido mi è scorso lungo il corpo risvegliandomi. Fuori, in strada già iniziavano i chiacchiericci, le corse, le frenate rumorose, qualche bisticcio da autista impaziente. Ho visto la frutta. Nel mezzo, un mango .

L’ho afferrato, non era freddo, come la sera prima, durante la notte aveva liberato nell’aria quel gelo e ora era liscio e caldo come la spalla di un amico, o come, da ragazzi, le ginocchia di un’amica, su cui posavo la testa per guardare le stelle cadenti d’estate. Con un coltello lavato l’ho pelato e ho tastato la polpa per saggiarne la maturezza. Pareva proprio un buon mango. Ho infilato il coltello di taglio nella polpa, ma quella polpa lamellata che ha un verso e una tensione interna di corde, si è opposta. Il filo seghettato della lama si è impigliato in quelle funi che si tirano nel corpo del mango. Così mi sono fermato. Era tutto scivoloso e si muoveva nella mia mano. Ma ho stretto un poco e i polpastrelli sono affondati per un millimetro nella polpa, facendo presa. Nella fretta, nel sonno, nella scarsa luce, con le terga percorse da un brivido ho travisato la realtà e optato per la scelta meno saggia, quella che avrebbe fatto di questa giornata una giornata diversa.

Ho aperto la bocca e accostato le labbra alla polpa arancione, ho sguainato i denti e, deciso, ho affondato il colpo. Tutti insieme quei lacci mi sono scorsi tra i denti, che ho avvertito distanziarsi lievemente. Erano fili che sembravano non finire più, per un breve istante la sensazione mi ha dato piacere: un tocco, un morbido massaggio alle gengive. Ma poco dopo si è palesato il disastro. In silenzio, nel buio della bocca gli sfilacci della polpa del mango si sono strappati, rovinosamente come una fune legata a una bitta che si sleghi e lasci un vascello alla deriva. In quel momento ho visto chiaramente nel mio futuro prossimo, una foresta di liane, una mangrovia zuccherina color arancio, e tutta ben piantata e radicata tra i miei denti. Che fare? Lo sapevo, non era il mio primo mango, forse era un mango particolarmente cordato, sfilacciato, ma lo era segretamente, senza dichiararlo apertamente. Un mango senza onore.

Era ormai il momento del secondo morso. Attendere e liberare il passo per poi tornare a ingombrarlo era inutile, ho scelto di attraversare ancora una volta il fitto del bosco. Serro la mascella e ancora una manciata di sfilacci mi sferza la bocca sconcertata, questi denti accarezzati e poi vilmente traditi. Con mia sorpresa, i filamenti si sono sommati ai precedenti, riempiendo i piccoli spazi vuoti e in questo mi ha travolto un’istinto animale. Un terzo morso, ho ruotato il frutto come fosse su uno spiedo, un quarto morso, ben assestato, ormai non mi importava niente, un quinto morso, sembrava tutto un sogno di denti digrignati contro un mostro impellicciato e impiastricciato di miele. Finalmente, il bizzarro nocciolo del mango. È stato come toccare terra dopo un viaggio burrascoso. I denti grattavano sulla parete villosa del duro cuore del frutto, cercando sollievo, cercando di liberarsi. Inutile. Era come se mi fossero cresciuti dei lunghi e fitti baffi ma all’interno e in una manciata di secondi. Ho strappato dai denti quell’alieno osso di seppia che resta di un mango mangiato, allacciato e annodato alla mia dentatura. Mi sono portato allo specchio del bagno e ho aperto le fauci: peli appesi, gialli e rossi, materia colante e folta, ciuffi fruttati diretti in ogni dove. Non sapevo da dove iniziare.

Ho passato del filo tra gli incisivi come per la cruna di un ago e ho tirato piano con il desiderio di provare il sollievo di un rapido distacco. Ma niente, stropicciati, agglomerati, cardati e torti, quei filamenti hanno continuato a divaricare incisivi da incisivi e da canini, randagi, maledetti. Ho fatto ancora dei tentativi, ho sanguinato, persino. Mi sono arreso e ho mollato la presa, sommariamente ho stracciato via quanto potevo senza ferirmi troppo. Ho continuato a muovere in circolo le labbra strette, come un roditore al truogolo, mentre con la lingua piegata in ogni direziome tentavo di liberarmi. Ho continuato a prepararmi, mi sono lavato, incremato, vestito, fermandomi di tanto in tanto perché avevo l’impressione di essere quasi riuscito a liberarmi di un ciuffo. Ma niente, un altro falso allarme. Sono uscito di casa con questa bocca affaticata di ciglia glicemiche. Ho camminato fino al lavoro, ho salutato delle persone a bocca serrata, ho preso l’ascensore, ho aperto la porta della stanza, ho acceso il computer, ho risposto ad alcuni messaggi, ho camminato nel corridoio sorridendo sommessamente, segretamente baffato. Ho pensato, risposto a voce, tutto con questo gomitolo di lane nella bocca. Poco a poco, pelo a pelo mi sono liberato un poco, con fatica. Ma ho mantenuto questa espressione da uomo pensieroso, da genio incompreso. Che avrò mai avuto in mente? Un’intuizione o solo la sensazione di aver divorato un pelame; di un morso a un covone di paglia e nient’altro. Oggi non ho pensato a nient’altro che ai miei canini pelosi.

Anche ora, in queste mezz’ore rubate all’aria su un aereo per l’impero, sento a tratti qualcosa che si muove, come un ramo di salice mosso dal vento. Un mango che mi è costato una giornata di smorfie geniali, un mango traditore, di buon sapore e barba à la mode. Una giornata diversa, con un centro e poche distrazioni, fatta per muovere piccoli muscoli che non muovi mai, parlare poco e sorridere il giusto. Vorrei esistesse un proverbio adatto per gli ingenui come me: “Non mordere il mango che non fende la lama”.

Ingresso da via Francesco Belloni, percorso lungo via dei Numisi attorno al casale con uscita sull’Ardeatina (cancello chiuso con rete aperta sulla sinistra) all’altezza di via San Sebastiano (che arriva fino all’Appia, pedonale nel finesettimana). Arbusti di rosmarino e alberi di prugne selvatiche buone in estate. dal punto più in alto, vista sui Castelli Romani (Monte Cavo).

A Roma, nei vagoni della linea A c’è un ragazzo che cammina lento. Cammina in uno spazio travolto dalle persone, con i piedi cerca uno spazio per sé, per poggiare la pianta della scarpa tra gli zaini lasciati a terra e le ruote dei passeggini, trasportini di gatti e i lunghi tubi che usano i giovani architetti per portare con sé i propri progetti. Si afferra ai pali orizzontali usando le mani come ombrelli appesi a una staffa. Quando trova un punto di equilibrio, libera un arto dal proprio peso e muove un nuovo passo, in bilico tra brusche frenate e partenze distratte; in una folla di passeggeri che si muove inconsciamente, sospinta da un ritmo incostante ma incessante, come la polpa densa di una zuppa quando l’acqua vuole bollirci dentro.

Nell’aria sintetica del vagone c’è una città di capi chini, molti leggono dal proprio telefono, alcuni (i bambini e gli anziani) si guardano la punta delle scarpe, annoiati, o talvolta si sforzano di guardare gli altri per capire cosa facciano, ma non è chiaro a nessuno. Se sei felice, di fretta, ben vestito o piangi nessuno se ne accorge in metro, qui neppure il vicino più prossimo. È tutto un mischiarsi di priorità che ognuno conosce e non dichiara, un susseguirsi di permessi esatti senza essere chiesti. File disattese. Urgenze spezzate.

Nella metropolitana di Roma le voci si levano singole e distinte. Puoi seguire le storie di ciascuno, se sei curioso. Se invece non ti getti in nessun racconto ne esce fuori un abbaiare di cani intollerabile. Senti una storia gridata, ma fratta, mal mescolata, un pasticcio di dialetti raccolti da ogni angolo del mondo. Si aggiungono gli urli acuti degli infanti, il reggaeton, il sottofondo dei videogiochi da telefono e le suonerie degli anziani che suonano per decine di minuti finché questi, sorpresi come da squilla di tromba in un silenzio assoluto, iniziano la lunga ricerca in borse, borselli, sacchetti, custodie e astucci per poi non fare in tempo e restare a guardare con occhi piccoli lo schermo di luce fioca d’un telefono d’altri tempi. A ogni movimento necessario, in metro ne consegue un altro; i movimenti inconsulti, inaspettati -i cambi d’idea- sono osteggiati, trovano opposizione nella rigidità della moltitudine. In metro, dove non c’é spazio per nulla, è possibile carezzare delicatamente la guancia del proprio amato, ma non tirare fuori di fretta un fazzoletto dalla tasca per accogliere uno starnuto.

In tutto questo brulicare, con un peculiare moto ondulato, si muove un ragazzo moro, di circa vent’anni, abbigliato di abiti più sportivi dei suoi movimenti, con i calzoni corti e scarpe da ginnastica nere. Nell’attraversare la folla rompe la norma del vagone e ti sfiora le spalle, richiama la tua attenzione, ti guarda negli occhi e ti dice: “Scusa!”. Ti chiede scusa in un istante che ferma il tempo e dura niente e dura troppo, perché non sai chi sia, non comprendi cosa accada, mentre lui ti è già entrato dentro e ha messo in ordine qualcosa. Quando ti risvegli e riprendi la posizione originale lui è già qualche metro avanti e offre altri il suo “Scusa!”. Volta la testa di continuo, come se ci contasse, come volesse dire “sapevo che ti avrei visto, eccoti qua!”. Come quando si cerca qualcuno a una festa. Sul suo viso non c’è serenità, c’é la necessità di scusarsi di farlo con tutti e di usare quell’occasione per legare un piccolo nodo a un laccio sciolto della nostra coscienza.

Non so cosa porti un giovane ragazzo, il capo coperto di riccioli tondi, a muoversi rettilineo tra le statue rinchiuse nel vagone. Non so per cosa si scusi, disconosco il suo cruccio, non so che fine faccia, una volta finita la giornata, di quelle mani piene di persone e di sguardi basiti. Ma ogni tanto ci penso alle sue scuse e quando lo reincontro le accetto e ricordo di portare le mie a chi devo. Forse è lì per ricordarci la parola “scusa”. Forse non lo dice a noi, non porge le sue personali scuse, ma ci dice “se hai smesso di chiederlo perché non ricordavi la parola, te la ricordo io: la parola è ‘scusa!’, ora vai e fanne buon uso”. Forse per questo cerca con gli occhi ciascuno, forse sa distinguere chi la ricorda e chi ha delle scuse da fare, appese alle linee degli occhi. Cercherò di non dimenticarla la parola, ma spero di trovarlo ancora. Lui e la sua nobile missione.

Sono stato a una festa di paese. Una con una storia strana: nata in California un secolo fa e riportata indietro da emigranti d’altri tempi; festa delle rose oltreoceano e festa dei narcisi qui, nel mezzo di una piana popolosa. Di narcisi ce n’erano, eccome. Lungo la strada di fronte al cimitero, dalle vetture parcheggiate sono scese persone di tutte le età. Gli uomini si sono arrotolati le maniche e le donne si sono legate i capelli. Si sono incamminati giù per il prato brillante e con mani morbide hanno raccolto una dozzina di fiori ciascuno cogliendoli dallo stelo, fresco e cavo, cresciuto alto in mezzo all’erba suggendo rugiada. Li hanno tenuti con una sola mano, con l’altra hanno tirato fuori da una tasca un legaccino per tenerli insieme e li hanno portati all’automobile. In qualcuna di queste, ad aspettare, c’era una nonna dalle calze pesanti, le gambe gonfie e l’acconciatura della domenica. La nonna giù nel pratone era scesa tante volte, così tante che non riusciva più a farlo. Per lei il suo sangue scende quest’oggi a raccogliere i narcisi, per poi porgerle quel morso di primavera e lasciare un sorriso sul suo volto severo.

Più in là sulla strada di ghiaino si entra in paese: tutto è preparato.
Mentre io vengo da una giornata qualsiasi e da un risveglio come tanti, qui questo mattino non lo è affatto. Nei bimbi brilla l’eccitazione della festa, per gli adulti è tutto un brulicare di compiti da svolgere, per gli anziani è un giorno vissuto a memoria: la loro eccitazione è saggezza, la loro perizia è richiesta in ogni angolo del paese. Mentre ognuno di questi duella con la propria emozione, c’è un sentimento comune che muove da lontano e prende possesso di tutti, delle loro menti, delle azioni, dei loro corpi, dei loro indumenti e li trasforma. Quest’oggi non è il Natale, non c’è un ospite a casa, non si deve rassettare la cucina né sprimacciare i cuscini per fargli piacere. Oggi è la festa dell’intera città. Oggi c’è un largo noi, pronto a dare il benvenuto a quanti entreranno: lo dicono le panche del corso, lucide e nette, i vasi di fiori nuovi appesi alle finestre, l’aiuola sgombera da foglie cadute, i gatti, famelici esperti di vicoli che guardano il forestiero con restia attrazione.

La città già brulica di sguardi, è l’ora. Io non sono che uno dei tanti che si accalcano e premono contro la fila di transenne che disegna uno dei lati del percorso che si snoda nel centro del paese. Sono agile, passo avanti e mi sistemo proprio lungo la traiettoria della parata di carri. Arrivano.

Uomini, cartapesta, eleganti profumi da signora, sudore, tempera, legno, dopobarba, sigaro, grasso da ingranaggi. L’angolo di uno dei carri non regge lo slancio e, seppure in lentezza, quasi mi sfiora il naso. Un gruppo di ragazzi mi chiede se è tutto a posto e io dico di sì. È tutto a posto, ma mi sono innamorato. Da quando è stato fischiato l’inizio della festa c’è ovunque un profumo pungente e irresistibile d’impegno. Mi innamora questo intrico di sguardi seri che corre dal primo all’ultimo della fila e tiene in piedi “questa cosa che facciamo insieme”. Mi infiamma la verità di questi movimenti coordinati, l’efficacia di questo cooperare forte, pulito e allenato; vedo, nella mano che afferra, la mano che ha afferrato, tante volte da conoscere il gesto a memoria. Noto l’anziano che alza il nipote perché veda meglio e più da vicino questa festa fatta di duro lavoro. Vedo risolvere problemi, pazientare e ripetere il giro per ore, vedo sperare nel premio finale. Vedo la ragazza che chiama l’amica: “Guardalo, Madonna che bono, fagli una foto” “Hai capito, mo’ perché t’ho detto de fa veloce?”. Sorridono. È vero, lui è bello, ma loro di più e tutto questo è tanto romantico quanto antico.

La sfilata di carri è stata un successo. C’è un vincitore, ma tutti sono colti da orgogliosa commozione. Appludiamo -ormai siamo tutti uno- e ci guardiamo negli occhi. I paesani sono sudati, esausti, dopo ore a trascinare le idee, i progetti, la fatica di un intero anno in trionfo per il corso. Noi abbiamo urlato e riso e indicato e incitato. Io vorrei dargli la mia mia gratitudine, la mia devozione, il mio cuore, la mia solitudine urbana perché mi insegnino a farne una festa. Mi battezzo nella loro fatica e penso alla mia. Ogni talento, dopolavoro, impegno e ogni attività amatoriale costano tempo ed esauriscono tutto, estraggono l’essenza fino a svuotare e dare un senso a un’intera esistenza. Lavorare insieme per uno scopo è un’attività così viva che la visione stessa ravviva. Da questa festa di paese sono tornato a casa pieno di speranze, tanto che anche la spenta aria atomica della città mi sembra brillare come quei petali di narcisi bianchi.

La differenza tra noi due è quello che ci lega.
Quello che fa di me me e di te te mi ricorda la storia che siamo e che siamo stati; mi ricorda che c’è stato un prima e che ora c’è un adesso che si infutura con disinvoltura.
La nostra storia è quella in cui un giorno ti ho visto e pur non sapendo chi fossi, mi sono reso conto di una semplice cosa: non eri me. Non lo eri più di chiunque altro, più di ogni singola cosa, più di tutto. E nel non esserlo mi attraevi a te come un vuoto d’aria. Non eri me ma mi riguardavi, perché i miei vuoti e i tuoi pieni collimavano con i miei pieni e i tuoi vuoti.
Quella differenza era chiara anche a te, l’ho letto nei tuoi occhi in quello stesso istante, il tuo nome era nelle conversazioni ascoltate distrattamente, da dietro una tenda, nella voce delle mamme che chiamano i bambini, nel ronzio delle api; lo conoscevo a memoria, senza averlo mai pronunciato, era nel muscolo della mia lingua senza essere mai stato soffiato fuori dal mio fiato. E così il mio in te.

Persino quello che non so di te mi riguarda, ci sono dentro perché nel mio regno non esiste un luogo su cui tu possa poggiarti senza scivolare, per questo la tua presenza è per me azione, non c’è modo in cui possa dimenticarmi che sei lì. Se fai un passo al di qua del confine devo stendere il braccio e afferrarti, perché sei prezioso ai miei occhi.
Sapevo che non eri me, perché vedevo che eri l’altro. Non uno qualunque diverso da me, bensì il peso esatto sul braccio opposto oltre il fulcro. L’effigie perfetta per il mio cartiglio vuoto.
Così ho avvertito sopraggiungere il momento glorioso: le linee si sono squadrate e la polvere si è posata sul suolo, i miei spigoli si sono incastonati con i tuoi e da lì è sgorgato un canto di giornate.

Il futuro è da scartare porzione per porzione come una confezione di caramelle dispettose. Ma ora so che la pace e la vita non sono dall’identico, dal congenito, dall’uniforme, ma da questo sistema di attrazioni che non mi fa ritirare gli occhi dal profilo del tuo naso, come un esercito sul confine che non possa mai perderti di vista, ma che al posto delle lance, leva le braccia aperte.

Quando ero un liceale, e ancora per qualche anno a seguire, avevo non più di due paia di scarpe. Uno per correre e uno per camminare. Tutte le mie scarpe erano nere. Il paio per camminare era pesante, con la punta rinforzata in ferro, di pelle lucida e spessa. Quando queste scarpe si invecchiavano, si scollavano o se ne consumava la pelle: le cambiavo, con lo stesso modello. Queste erano le mie scarpe per camminare. Ci camminavo la mattina per andare a scuola, ci camminavo con gli amici nel pomeriggio mentre mangiavo un gelato, ci andavo a lezioni di pianoforte, ci andavo d’estate in spiaggia, ci sono andato al battesimo delle cugine, al matrimonio dell’amica di famiglia, al mio esame di maturità e qualche esame universitario, al funerale del nonno. Perché in queste attività non c’era da correre, c’ero io, un luogo in cui essere e le mie scarpe per camminare.

Il secondo paio era un paio di scarpe da ginnastica, che, senza mai sostituirlo con un gemello, come nel primo caso, ho usato a lungo: poco di frequente negli anni di scuola, molto di più in seguito, quando fuori da quelle mura, ho scoperto il piacere di fare attività fisica. Erano scarpe semplici e morbide e facili da indossare. I lacci, verso gli ultimi anni, avevano le punte sfilacciate e se si sfilavano per un impeto nello scalzarle erano guai, ma avevo un metodo infallibile che comprendeva del gel per capelli e una bacchetta cinese. Non esistevano video hack da consultare e bisognava cavarsela con un po’ di creatività. Indossavo le scarpe per correre per imposizione; solo nei giorni in cui c’erano lezioni di Educazione fisica. Mi vergognavo di camminare tra le persone per andare a scuola con le mie scarpe per correre, come fossi un invitato a un matrimonio, ma con le scarpe sbagliate, tremendamente sbagliate. Se parlavo con qualcuno quel giorno, prima od oltre l’ora della ginnastica a scuola, nascondevo i piedi sotto la sedia o l’uno dietro l’altro, perché il fatto di scoprirmi calzato di scarpe non mettesse in pericolo la credibilità delle mie parole.
Nel tempo qualcosa è cambiato e ho iniziato a calzare le mie scarpe per correre non già per dovere, ma per piacere; non più con vergogna, bensì con spirito d’impegno. Ho iniziato a portarle in uno zaino a parte, mentre ai piedi indosso le altre, quelle fatte per parlare con la gente e nello zaino porto il mio impegno con me stesso di correre, di fare qualcosa per me. Quanto alle mie parole, quelle decollano vere e atterrano in terre che ignoro, nonostante le mie scarpe.

Oggi, certo tempo dopo, non ho più solo due paia di scarpe. Non ho più solo due modi di camminare, né di presentarmi. Oggi, che non ci sono più orari scanditi da campanelle, né aule, né sedie dal fondo di legno per nascondere i piedi, ho tante paia di scarpe di diversi colori e fogge. Oggi che non ci sono più solo chiare imposizioni e impegni ufficiosi, ma numerose sfumature da non cogliere, messaggi caduti nel vuoto e seconde letture su cui costruire speranze…oggi ho tante paia diverse che non mi somigliano. Qualche paio ha dei dettagli che non sopporto, ma so che è il paio giusto per fare -ad esempio- un colloquio, mi dà l’aria giusta: lascia pensare di me che ho difetti che non ho e certi pregi, che in realtà non vorrei avere. Qualche altro -forse il mio preferito- è un paio di scarpe rosse che resta nascosto in una scatola per giorni interi e ne fuoriesce il sabato mattina, perché dice:
“È il weekend. Sono libero!”.
Ho un paio di scarpe serie che dice “Sono triste, ma sono un uomo grande e sono qui per sostenerti”. Altri dicono: “È una bella festa, ma non resterò a lungo, voglio tornare sul mio divano e aspettare il sonno”, “Volevo essere elegante, ma mi sento uno straccio e le vere scarpe eleganti non sono volute venire con me, in queste condizioni”.

Qualche volta, quando sono in campagna e ho del tempo libero, ho voglia di togliere tutto. Pesare la pianta dei piedi sul fondo del prato secco e vedere gli insetti che passano ignorando la mia presenza. Ho voglia di sentire il caldo della terra. Questo è quando non c’è né da camminare, né da correre, né consolazione da offrire, né un ballo da ballare e regna il silenzio e l’anima è ferma sotto il soffio del vento.

Vivo in un seminterrato. L’unica finestra di questa stanza che mi vede svegliarmi, partire, tornare, dormire, mangiare e fissare il vuoto si apre su un incrocio tra due strade antiche e mediamente calpestate, con lo sfondo di qualche rudere in parte pubblico, in parte inglobato in proprietà private. L’altezza del mio affaccio arriva alle caviglie, non oltre. Il telaio della finestra, in alto raggiunge le anche di qualche piccola donna o piccolo uomo e le ginocchia di passanti più slanciati. Se passa un bimbo, raccolto e incurvato, incuriosito da una lunga coda di formiche infilate, allora la finestra lo inquadra tutto, come una cornice. La mia finestra oltre che le loro scarpe, i calzini, gli orli, i lacci delle scarpe è capace di inquadrare quel breve momento, fatto di pochi passi, in cui i passanti ci passano di fronte. Quest’oggetto vuoto fatto per vedere, mi apre un istante e incornicia per me le loro parole. A volte le loro confidenze.

Presto al mattino le confessioni dei bimbi alle mamme “Non ho fatto storia!”, “E adesso?”, risponde la mamma. La scuola è oltre una svolta a quattro metri dalla mia finestra. Svoltano. E io non so mai come finisce la storia di questi bambini. La storia della storia mancante.

La sera ci sono le confessioni romantiche: lei a volte torna a casa e chiama un amico, un’amica, racconta che lui non ci sa fare, che lei sperava ci ripensasse, che lui è cambiato durante la serata, che il film faceva schifo, che lui era ancora meglio di come immaginava. Lui una volta è tornato e le ha chiesto di scendere, lei e scesa, titubante e lui le ha riportato una maglia. Lui se n’è andato e lei ha richiamato l’amica. “Era per la maglia. Che palle.”.

Di pomeriggio: quelli che si perdono: “Ma non era di qua?”, “guarda che il Tevere è da quella parte, guarda su Maps”. Ma dove finiscono non lo so mai. Provo a porgere l’orecchio, ma sento che si allontanano e il luogo che menzionano è sempre dal lato opposto rispetto a dove sparisce la loro voce.
Lo stesso vale per le telefonate, rapide, mozze, senza interlocutore. Portano intere famiglie in questo pugno di metri cubi della mia stanza. “Lo sai bene qual è il problema…”. “Io no, qual è?”, vorrei urlare interrogativo anche io dalla finestra. Invece tutte queste storie spariscono.

I miei preferiti sono gli amici. I compagni di calcio. “Io non sono bravo a letto, ma non è che glielo posso dire io”, “Va bè, nessuno è bravo. Ci proviamo tutti”. “Hai visto che bestia Luca, che spalle. Io mi sembro Pinocchio”. I ragazzi -tra loro- con poche parole, immagini semplici e a volte dure si confessano, nel buio, l’inconfessabile. Quello che, se questo non fosse un incrocio di vecchie strade con poche silenziose finestre basse puntate alle caviglie, non direbbero mai. Quanto scotta il fuoco, quanto gela il ghiaccio dei giorni senza lei, senza scuola, con il peso degli impegni, senza niente da fare. A volte non odo risposta. Sento una pacca sulla spalla “Daje, fratè”. Per pudore talora accosto le imposte. Sono un abitante curioso ma mi sciolgo quando le storie si fanno vere da toccare.