Sono uno di quelli che dicono di sì. Quelli che dicono di sì, ma non hanno capito un cazzo. Potrebbe dirsi che sia un bugiardo, ma lo sono in un modo specifico e ingenuo. La realtà è un po’ quello che mi sembra e a me piace raccontarla così. In fondo, non sono io a mentire alle persone, è la realtà a farlo con me. Troppa immaginazione e un tot di voglia di crederci.

Così, un giorno…In un parco, pieno di dislivelli e di piante che profumano vieppiù con l’aumentare del caldo dell’aria: sono vestito a puntino, canottiera tecnica, pantaloncini elasticizzati, scarpe comode. Sono venuto a correre, tanto per fare un po’ di movimento, per stare all’aperto, come si fa con i panni stesi fuori, che, poi, profumano di più e sanno di buono. È un percorso che conosco. Già fatto. Ma, un po’ per gioco e un po’ per spronarmi, vivo tutto come fosse nuovo. Quindi, di colpo m’inganno, cambio percorso e lo attorciglio, lo intrico per fingere di perdermi e poi di ritrovare, tronfio, il sentiero. Mi fingo di disconoscere un luogo che ho già visto per certo e di riconoscerne altri mai sfiorati e di sapere dove conduce il cammino che li costeggia: “Ah, sì, sì. Certo”.

Passo accosto a un silos diroccato, in dosso a una collinetta che svetta nel centro di una parco di brada campagna urbana, dalla cima si vede sino ai monti che circondano la città. Da qui, non certo le case, ma riconosco la forma dei paesuoli che punteggiano quei monti (o almeno così mi mento di fare), se fossi con qualcuno, direi: “Quello è…”, con aria seria.

Proseguo, noto dei folti arbusti di alloro (me lo dico con sicurezza: “Ah, l’alloro, sì”, mi avvicino, prendo una foglia, la annuso. A volte non sa di niente, altre della secca terra di cui è ricoperta, “sì, sì, è alloro” dico, come se qualcuno mi ascoltasse). Faccio un paio di svolte veloci, mi ritrovo sempre altrove, “Ora c’è…no”, “Ah, ecco, ora a sinistra e si ved…no”. Non mi faccio mai trascinare un po’.

Risalgo da dietro una cunetta e spunta il fianco di una costruzione antica, un casale, uno spiazzo e alcuni alberi che la circondano, gli eucalipti alti e frondosi fanno da muro, negli interstizi tra l’uno e l’altro intravedo scorci, ancora alberi, pietre sistemate in un vialetto. Mentre continuo ad avvicinarmi seguendo il sentiero curvo, tutti questi frammenti di immagini si muovono con me. Vedo la spalla di un muro basso, un vaso di fiori.

Vedo e ricordo. A destra della fila di eucalipti, uno spazio aperto e un cancello basso in ferro battuto rosso. Oltre un piccolo scalino a scendere, un viottolo di sassi tondi e lisci, buoni sotto la suola delle scarpe. L’aria è umida e nutriente e, dirimpetto al cancello, c’è un muretto coperto di muschio. L’aiuola che corre lungo il muro è stellata di ciuffi di fiori rosa. Nel mezzo del giardino, tra i ciottoli bianchi si staglia una piccola vecchia fontana di pietra, con un timido zampillo, ostruito dalla terra, da altro muschio, dal tempo. Nell’angolo opposto all’entrata c’è la padrona di casa: in una nicchia alta un metro e mezzo, circa, ritta in piedi, c’è una statua della Vergine, tutta bianca, con i dettagli un po’ sbiaditi, consunti dal vento e la pioggia, ma sorprendentemente candida. Ricordo di essere entrato con la mia dolce metà in quel placido giardino, di aver sorriso, insieme, alla statuina; di aver respirato con calma; di aver letto qualcosa insieme, una placca commemorativa, forse, di una suora vissuta lì, o di un miracolo per cui si rendeva grazie erigendo quel luogo di pace. Ricordo che ne siamo usciti guardandoci negli occhi, rasserenati.

Nel ricordare, rallento il passo. Svolto a destra per passare di fianco, per vedere l’ingresso, per vedere il muro dietro, per vedere meglio, per vedere cosa? Sono costretto a ravvedermi, non c’è nessun giardinetto. C’è uno spiazzo, e un cippo d’albero reciso, nel mezzo. Al suolo, la nuda terra, polverosa arida. È un luogo desolato. Non c’è un cancello, ma pietre su cui inciampare. Il muretto è una siepe scura e la Vergine, una macchia sull’albero nell’angolo sinistro dello spiazzo. Una macchia bianca sulla corteccia argentea, candida davvero. Un po’ allungata, certo, con la porzione superiore stretta e tonda, come un capo, certo. Ma è inutile giustificarmi, e con chi, poi? Il parco della Vergine non c’è. È stato una fumosa creazione, rapidamente assemblata e vissuta intensamente. Un ricordo vivido, un sogno ludico, un gioco onirico. Ci tornerò, magari non da solo e magari racconterò a qualcuno dal vero, dov’erano le cose nel mio immaginato giardino di pace. Vorrei dirlo ad alta voce, anche solo per sentire come suona. Come quando ti ripeti una parola, che non sai se l’hai inventata lì sul posto.

Mi vergogno un po’ che la mia mente mi menta tanto. Ma sono così, sono un bugiardo di un tipo specifico: è la realtà che mi mente e a me piace crederci.

Oggi non è un giorno qualsiasi. Non è come tutti gli altri, anche solo per come è cominciato. Dai primi gesti già si vedeva che le cose sarebbero andate diversamente dal solito. Forse persino qualche intuizione di ieri sera poteva far presagire: in frigorifero c’era della frutta comprata da qualche giorno, l’ho tirata fuori, per fare oggi una colazione diversa senza mangiare frutta troppo fredda, per non improvvisare.

Bi, bi, bip. Sveglia. Mi sono alzato e ho attraversato il salone, ascoltando il giornale radio come ogni mattina. In cucina c’era una luce tenue, la luce giusta per incominciare una giornata dopo ore di buio, con le palpebre serrate strette tra loro e ricamate di sogni leggeri. Il pavimento era freddo e un brivido mi è scorso lungo il corpo risvegliandomi. Fuori, in strada già iniziavano i chiacchiericci, le corse, le frenate rumorose, qualche bisticcio da autista impaziente. Ho visto la frutta. Nel mezzo, un mango .

L’ho afferrato, non era freddo, come la sera prima, durante la notte aveva liberato nell’aria quel gelo e ora era liscio e caldo come la spalla di un amico, o come, da ragazzi, le ginocchia di un’amica, su cui posavo la testa per guardare le stelle cadenti d’estate. Con un coltello lavato l’ho pelato e ho tastato la polpa per saggiarne la maturezza. Pareva proprio un buon mango. Ho infilato il coltello di taglio nella polpa, ma quella polpa lamellata che ha un verso e una tensione interna di corde, si è opposta. Il filo seghettato della lama si è impigliato in quelle funi che si tirano nel corpo del mango. Così mi sono fermato. Era tutto scivoloso e si muoveva nella mia mano. Ma ho stretto un poco e i polpastrelli sono affondati per un millimetro nella polpa, facendo presa. Nella fretta, nel sonno, nella scarsa luce, con le terga percorse da un brivido ho travisato la realtà e optato per la scelta meno saggia, quella che avrebbe fatto di questa giornata una giornata diversa.

Ho aperto la bocca e accostato le labbra alla polpa arancione, ho sguainato i denti e, deciso, ho affondato il colpo. Tutti insieme quei lacci mi sono scorsi tra i denti, che ho avvertito distanziarsi lievemente. Erano fili che sembravano non finire più, per un breve istante la sensazione mi ha dato piacere: un tocco, un morbido massaggio alle gengive. Ma poco dopo si è palesato il disastro. In silenzio, nel buio della bocca gli sfilacci della polpa del mango si sono strappati, rovinosamente come una fune legata a una bitta che si sleghi e lasci un vascello alla deriva. In quel momento ho visto chiaramente nel mio futuro prossimo, una foresta di liane, una mangrovia zuccherina color arancio, e tutta ben piantata e radicata tra i miei denti. Che fare? Lo sapevo, non era il mio primo mango, forse era un mango particolarmente cordato, sfilacciato, ma lo era segretamente, senza dichiararlo apertamente. Un mango senza onore.

Era ormai il momento del secondo morso. Attendere e liberare il passo per poi tornare a ingombrarlo era inutile, ho scelto di attraversare ancora una volta il fitto del bosco. Serro la mascella e ancora una manciata di sfilacci mi sferza la bocca sconcertata, questi denti accarezzati e poi vilmente traditi. Con mia sorpresa, i filamenti si sono sommati ai precedenti, riempiendo i piccoli spazi vuoti e in questo mi ha travolto un’istinto animale. Un terzo morso, ho ruotato il frutto come fosse su uno spiedo, un quarto morso, ben assestato, ormai non mi importava niente, un quinto morso, sembrava tutto un sogno di denti digrignati contro un mostro impellicciato e impiastricciato di miele. Finalmente, il bizzarro nocciolo del mango. È stato come toccare terra dopo un viaggio burrascoso. I denti grattavano sulla parete villosa del duro cuore del frutto, cercando sollievo, cercando di liberarsi. Inutile. Era come se mi fossero cresciuti dei lunghi e fitti baffi ma all’interno e in una manciata di secondi. Ho strappato dai denti quell’alieno osso di seppia che resta di un mango mangiato, allacciato e annodato alla mia dentatura. Mi sono portato allo specchio del bagno e ho aperto le fauci: peli appesi, gialli e rossi, materia colante e folta, ciuffi fruttati diretti in ogni dove. Non sapevo da dove iniziare.

Ho passato del filo tra gli incisivi come per la cruna di un ago e ho tirato piano con il desiderio di provare il sollievo di un rapido distacco. Ma niente, stropicciati, agglomerati, cardati e torti, quei filamenti hanno continuato a divaricare incisivi da incisivi e da canini, randagi, maledetti. Ho fatto ancora dei tentativi, ho sanguinato, persino. Mi sono arreso e ho mollato la presa, sommariamente ho stracciato via quanto potevo senza ferirmi troppo. Ho continuato a muovere in circolo le labbra strette, come un roditore al truogolo, mentre con la lingua piegata in ogni direziome tentavo di liberarmi. Ho continuato a prepararmi, mi sono lavato, incremato, vestito, fermandomi di tanto in tanto perché avevo l’impressione di essere quasi riuscito a liberarmi di un ciuffo. Ma niente, un altro falso allarme. Sono uscito di casa con questa bocca affaticata di ciglia glicemiche. Ho camminato fino al lavoro, ho salutato delle persone a bocca serrata, ho preso l’ascensore, ho aperto la porta della stanza, ho acceso il computer, ho risposto ad alcuni messaggi, ho camminato nel corridoio sorridendo sommessamente, segretamente baffato. Ho pensato, risposto a voce, tutto con questo gomitolo di lane nella bocca. Poco a poco, pelo a pelo mi sono liberato un poco, con fatica. Ma ho mantenuto questa espressione da uomo pensieroso, da genio incompreso. Che avrò mai avuto in mente? Un’intuizione o solo la sensazione di aver divorato un pelame; di un morso a un covone di paglia e nient’altro. Oggi non ho pensato a nient’altro che ai miei canini pelosi.

Anche ora, in queste mezz’ore rubate all’aria su un aereo per l’impero, sento a tratti qualcosa che si muove, come un ramo di salice mosso dal vento. Un mango che mi è costato una giornata di smorfie geniali, un mango traditore, di buon sapore e barba à la mode. Una giornata diversa, con un centro e poche distrazioni, fatta per muovere piccoli muscoli che non muovi mai, parlare poco e sorridere il giusto. Vorrei esistesse un proverbio adatto per gli ingenui come me: “Non mordere il mango che non fende la lama”.

A Roma, nei vagoni della linea A c’è un ragazzo che cammina lento. Cammina in uno spazio travolto dalle persone, con i piedi cerca uno spazio per sé, per poggiare la pianta della scarpa tra gli zaini lasciati a terra e le ruote dei passeggini, trasportini di gatti e i lunghi tubi che usano i giovani architetti per portare con sé i propri progetti. Si afferra ai pali orizzontali usando le mani come ombrelli appesi a una staffa. Quando trova un punto di equilibrio, libera un arto dal proprio peso e muove un nuovo passo, in bilico tra brusche frenate e partenze distratte; in una folla di passeggeri che si muove inconsciamente, sospinta da un ritmo incostante ma incessante, come la polpa densa di una zuppa quando l’acqua vuole bollirci dentro.

Nell’aria sintetica del vagone c’è una città di capi chini, molti leggono dal proprio telefono, alcuni (i bambini e gli anziani) si guardano la punta delle scarpe, annoiati, o talvolta si sforzano di guardare gli altri per capire cosa facciano, ma non è chiaro a nessuno. Se sei felice, di fretta, ben vestito o piangi nessuno se ne accorge in metro, qui neppure il vicino più prossimo. È tutto un mischiarsi di priorità che ognuno conosce e non dichiara, un susseguirsi di permessi esatti senza essere chiesti. File disattese. Urgenze spezzate.

Nella metropolitana di Roma le voci si levano singole e distinte. Puoi seguire le storie di ciascuno, se sei curioso. Se invece non ti getti in nessun racconto ne esce fuori un abbaiare di cani intollerabile. Senti una storia gridata, ma fratta, mal mescolata, un pasticcio di dialetti raccolti da ogni angolo del mondo. Si aggiungono gli urli acuti degli infanti, il reggaeton, il sottofondo dei videogiochi da telefono e le suonerie degli anziani che suonano per decine di minuti finché questi, sorpresi come da squilla di tromba in un silenzio assoluto, iniziano la lunga ricerca in borse, borselli, sacchetti, custodie e astucci per poi non fare in tempo e restare a guardare con occhi piccoli lo schermo di luce fioca d’un telefono d’altri tempi. A ogni movimento necessario, in metro ne consegue un altro; i movimenti inconsulti, inaspettati -i cambi d’idea- sono osteggiati, trovano opposizione nella rigidità della moltitudine. In metro, dove non c’é spazio per nulla, è possibile carezzare delicatamente la guancia del proprio amato, ma non tirare fuori di fretta un fazzoletto dalla tasca per accogliere uno starnuto.

In tutto questo brulicare, con un peculiare moto ondulato, si muove un ragazzo moro, di circa vent’anni, abbigliato di abiti più sportivi dei suoi movimenti, con i calzoni corti e scarpe da ginnastica nere. Nell’attraversare la folla rompe la norma del vagone e ti sfiora le spalle, richiama la tua attenzione, ti guarda negli occhi e ti dice: “Scusa!”. Ti chiede scusa in un istante che ferma il tempo e dura niente e dura troppo, perché non sai chi sia, non comprendi cosa accada, mentre lui ti è già entrato dentro e ha messo in ordine qualcosa. Quando ti risvegli e riprendi la posizione originale lui è già qualche metro avanti e offre altri il suo “Scusa!”. Volta la testa di continuo, come se ci contasse, come volesse dire “sapevo che ti avrei visto, eccoti qua!”. Come quando si cerca qualcuno a una festa. Sul suo viso non c’è serenità, c’é la necessità di scusarsi di farlo con tutti e di usare quell’occasione per legare un piccolo nodo a un laccio sciolto della nostra coscienza.

Non so cosa porti un giovane ragazzo, il capo coperto di riccioli tondi, a muoversi rettilineo tra le statue rinchiuse nel vagone. Non so per cosa si scusi, disconosco il suo cruccio, non so che fine faccia, una volta finita la giornata, di quelle mani piene di persone e di sguardi basiti. Ma ogni tanto ci penso alle sue scuse e quando lo reincontro le accetto e ricordo di portare le mie a chi devo. Forse è lì per ricordarci la parola “scusa”. Forse non lo dice a noi, non porge le sue personali scuse, ma ci dice “se hai smesso di chiederlo perché non ricordavi la parola, te la ricordo io: la parola è ‘scusa!’, ora vai e fanne buon uso”. Forse per questo cerca con gli occhi ciascuno, forse sa distinguere chi la ricorda e chi ha delle scuse da fare, appese alle linee degli occhi. Cercherò di non dimenticarla la parola, ma spero di trovarlo ancora. Lui e la sua nobile missione.

Sono stato a una festa di paese. Una con una storia strana: nata in California un secolo fa e riportata indietro da emigranti d’altri tempi; festa delle rose oltreoceano e festa dei narcisi qui, nel mezzo di una piana popolosa. Di narcisi ce n’erano, eccome. Lungo la strada di fronte al cimitero, dalle vetture parcheggiate sono scese persone di tutte le età. Gli uomini si sono arrotolati le maniche e le donne si sono legate i capelli. Si sono incamminati giù per il prato brillante e con mani morbide hanno raccolto una dozzina di fiori ciascuno cogliendoli dallo stelo, fresco e cavo, cresciuto alto in mezzo all’erba suggendo rugiada. Li hanno tenuti con una sola mano, con l’altra hanno tirato fuori da una tasca un legaccino per tenerli insieme e li hanno portati all’automobile. In qualcuna di queste, ad aspettare, c’era una nonna dalle calze pesanti, le gambe gonfie e l’acconciatura della domenica. La nonna giù nel pratone era scesa tante volte, così tante che non riusciva più a farlo. Per lei il suo sangue scende quest’oggi a raccogliere i narcisi, per poi porgerle quel morso di primavera e lasciare un sorriso sul suo volto severo.

Più in là sulla strada di ghiaino si entra in paese: tutto è preparato.
Mentre io vengo da una giornata qualsiasi e da un risveglio come tanti, qui questo mattino non lo è affatto. Nei bimbi brilla l’eccitazione della festa, per gli adulti è tutto un brulicare di compiti da svolgere, per gli anziani è un giorno vissuto a memoria: la loro eccitazione è saggezza, la loro perizia è richiesta in ogni angolo del paese. Mentre ognuno di questi duella con la propria emozione, c’è un sentimento comune che muove da lontano e prende possesso di tutti, delle loro menti, delle azioni, dei loro corpi, dei loro indumenti e li trasforma. Quest’oggi non è il Natale, non c’è un ospite a casa, non si deve rassettare la cucina né sprimacciare i cuscini per fargli piacere. Oggi è la festa dell’intera città. Oggi c’è un largo noi, pronto a dare il benvenuto a quanti entreranno: lo dicono le panche del corso, lucide e nette, i vasi di fiori nuovi appesi alle finestre, l’aiuola sgombera da foglie cadute, i gatti, famelici esperti di vicoli che guardano il forestiero con restia attrazione.

La città già brulica di sguardi, è l’ora. Io non sono che uno dei tanti che si accalcano e premono contro la fila di transenne che disegna uno dei lati del percorso che si snoda nel centro del paese. Sono agile, passo avanti e mi sistemo proprio lungo la traiettoria della parata di carri. Arrivano.

Uomini, cartapesta, eleganti profumi da signora, sudore, tempera, legno, dopobarba, sigaro, grasso da ingranaggi. L’angolo di uno dei carri non regge lo slancio e, seppure in lentezza, quasi mi sfiora il naso. Un gruppo di ragazzi mi chiede se è tutto a posto e io dico di sì. È tutto a posto, ma mi sono innamorato. Da quando è stato fischiato l’inizio della festa c’è ovunque un profumo pungente e irresistibile d’impegno. Mi innamora questo intrico di sguardi seri che corre dal primo all’ultimo della fila e tiene in piedi “questa cosa che facciamo insieme”. Mi infiamma la verità di questi movimenti coordinati, l’efficacia di questo cooperare forte, pulito e allenato; vedo, nella mano che afferra, la mano che ha afferrato, tante volte da conoscere il gesto a memoria. Noto l’anziano che alza il nipote perché veda meglio e più da vicino questa festa fatta di duro lavoro. Vedo risolvere problemi, pazientare e ripetere il giro per ore, vedo sperare nel premio finale. Vedo la ragazza che chiama l’amica: “Guardalo, Madonna che bono, fagli una foto” “Hai capito, mo’ perché t’ho detto de fa veloce?”. Sorridono. È vero, lui è bello, ma loro di più e tutto questo è tanto romantico quanto antico.

La sfilata di carri è stata un successo. C’è un vincitore, ma tutti sono colti da orgogliosa commozione. Appludiamo -ormai siamo tutti uno- e ci guardiamo negli occhi. I paesani sono sudati, esausti, dopo ore a trascinare le idee, i progetti, la fatica di un intero anno in trionfo per il corso. Noi abbiamo urlato e riso e indicato e incitato. Io vorrei dargli la mia mia gratitudine, la mia devozione, il mio cuore, la mia solitudine urbana perché mi insegnino a farne una festa. Mi battezzo nella loro fatica e penso alla mia. Ogni talento, dopolavoro, impegno e ogni attività amatoriale costano tempo ed esauriscono tutto, estraggono l’essenza fino a svuotare e dare un senso a un’intera esistenza. Lavorare insieme per uno scopo è un’attività così viva che la visione stessa ravviva. Da questa festa di paese sono tornato a casa pieno di speranze, tanto che anche la spenta aria atomica della città mi sembra brillare come quei petali di narcisi bianchi.

Quando ero un liceale, e ancora per qualche anno a seguire, avevo non più di due paia di scarpe. Uno per correre e uno per camminare. Tutte le mie scarpe erano nere. Il paio per camminare era pesante, con la punta rinforzata in ferro, di pelle lucida e spessa. Quando queste scarpe si invecchiavano, si scollavano o se ne consumava la pelle: le cambiavo, con lo stesso modello. Queste erano le mie scarpe per camminare. Ci camminavo la mattina per andare a scuola, ci camminavo con gli amici nel pomeriggio mentre mangiavo un gelato, ci andavo a lezioni di pianoforte, ci andavo d’estate in spiaggia, ci sono andato al battesimo delle cugine, al matrimonio dell’amica di famiglia, al mio esame di maturità e qualche esame universitario, al funerale del nonno. Perché in queste attività non c’era da correre, c’ero io, un luogo in cui essere e le mie scarpe per camminare.

Il secondo paio era un paio di scarpe da ginnastica, che, senza mai sostituirlo con un gemello, come nel primo caso, ho usato a lungo: poco di frequente negli anni di scuola, molto di più in seguito, quando fuori da quelle mura, ho scoperto il piacere di fare attività fisica. Erano scarpe semplici e morbide e facili da indossare. I lacci, verso gli ultimi anni, avevano le punte sfilacciate e se si sfilavano per un impeto nello scalzarle erano guai, ma avevo un metodo infallibile che comprendeva del gel per capelli e una bacchetta cinese. Non esistevano video hack da consultare e bisognava cavarsela con un po’ di creatività. Indossavo le scarpe per correre per imposizione; solo nei giorni in cui c’erano lezioni di Educazione fisica. Mi vergognavo di camminare tra le persone per andare a scuola con le mie scarpe per correre, come fossi un invitato a un matrimonio, ma con le scarpe sbagliate, tremendamente sbagliate. Se parlavo con qualcuno quel giorno, prima od oltre l’ora della ginnastica a scuola, nascondevo i piedi sotto la sedia o l’uno dietro l’altro, perché il fatto di scoprirmi calzato di scarpe non mettesse in pericolo la credibilità delle mie parole.
Nel tempo qualcosa è cambiato e ho iniziato a calzare le mie scarpe per correre non già per dovere, ma per piacere; non più con vergogna, bensì con spirito d’impegno. Ho iniziato a portarle in uno zaino a parte, mentre ai piedi indosso le altre, quelle fatte per parlare con la gente e nello zaino porto il mio impegno con me stesso di correre, di fare qualcosa per me. Quanto alle mie parole, quelle decollano vere e atterrano in terre che ignoro, nonostante le mie scarpe.

Oggi, certo tempo dopo, non ho più solo due paia di scarpe. Non ho più solo due modi di camminare, né di presentarmi. Oggi, che non ci sono più orari scanditi da campanelle, né aule, né sedie dal fondo di legno per nascondere i piedi, ho tante paia di scarpe di diversi colori e fogge. Oggi che non ci sono più solo chiare imposizioni e impegni ufficiosi, ma numerose sfumature da non cogliere, messaggi caduti nel vuoto e seconde letture su cui costruire speranze…oggi ho tante paia diverse che non mi somigliano. Qualche paio ha dei dettagli che non sopporto, ma so che è il paio giusto per fare -ad esempio- un colloquio, mi dà l’aria giusta: lascia pensare di me che ho difetti che non ho e certi pregi, che in realtà non vorrei avere. Qualche altro -forse il mio preferito- è un paio di scarpe rosse che resta nascosto in una scatola per giorni interi e ne fuoriesce il sabato mattina, perché dice:
“È il weekend. Sono libero!”.
Ho un paio di scarpe serie che dice “Sono triste, ma sono un uomo grande e sono qui per sostenerti”. Altri dicono: “È una bella festa, ma non resterò a lungo, voglio tornare sul mio divano e aspettare il sonno”, “Volevo essere elegante, ma mi sento uno straccio e le vere scarpe eleganti non sono volute venire con me, in queste condizioni”.

Qualche volta, quando sono in campagna e ho del tempo libero, ho voglia di togliere tutto. Pesare la pianta dei piedi sul fondo del prato secco e vedere gli insetti che passano ignorando la mia presenza. Ho voglia di sentire il caldo della terra. Questo è quando non c’è né da camminare, né da correre, né consolazione da offrire, né un ballo da ballare e regna il silenzio e l’anima è ferma sotto il soffio del vento.

Vivo in un seminterrato. L’unica finestra di questa stanza che mi vede svegliarmi, partire, tornare, dormire, mangiare e fissare il vuoto si apre su un incrocio tra due strade antiche e mediamente calpestate, con lo sfondo di qualche rudere in parte pubblico, in parte inglobato in proprietà private. L’altezza del mio affaccio arriva alle caviglie, non oltre. Il telaio della finestra, in alto raggiunge le anche di qualche piccola donna o piccolo uomo e le ginocchia di passanti più slanciati. Se passa un bimbo, raccolto e incurvato, incuriosito da una lunga coda di formiche infilate, allora la finestra lo inquadra tutto, come una cornice. La mia finestra oltre che le loro scarpe, i calzini, gli orli, i lacci delle scarpe è capace di inquadrare quel breve momento, fatto di pochi passi, in cui i passanti ci passano di fronte. Quest’oggetto vuoto fatto per vedere, mi apre un istante e incornicia per me le loro parole. A volte le loro confidenze.

Presto al mattino le confessioni dei bimbi alle mamme “Non ho fatto storia!”, “E adesso?”, risponde la mamma. La scuola è oltre una svolta a quattro metri dalla mia finestra. Svoltano. E io non so mai come finisce la storia di questi bambini. La storia della storia mancante.

La sera ci sono le confessioni romantiche: lei a volte torna a casa e chiama un amico, un’amica, racconta che lui non ci sa fare, che lei sperava ci ripensasse, che lui è cambiato durante la serata, che il film faceva schifo, che lui era ancora meglio di come immaginava. Lui una volta è tornato e le ha chiesto di scendere, lei e scesa, titubante e lui le ha riportato una maglia. Lui se n’è andato e lei ha richiamato l’amica. “Era per la maglia. Che palle.”.

Di pomeriggio: quelli che si perdono: “Ma non era di qua?”, “guarda che il Tevere è da quella parte, guarda su Maps”. Ma dove finiscono non lo so mai. Provo a porgere l’orecchio, ma sento che si allontanano e il luogo che menzionano è sempre dal lato opposto rispetto a dove sparisce la loro voce.
Lo stesso vale per le telefonate, rapide, mozze, senza interlocutore. Portano intere famiglie in questo pugno di metri cubi della mia stanza. “Lo sai bene qual è il problema…”. “Io no, qual è?”, vorrei urlare interrogativo anche io dalla finestra. Invece tutte queste storie spariscono.

I miei preferiti sono gli amici. I compagni di calcio. “Io non sono bravo a letto, ma non è che glielo posso dire io”, “Va bè, nessuno è bravo. Ci proviamo tutti”. “Hai visto che bestia Luca, che spalle. Io mi sembro Pinocchio”. I ragazzi -tra loro- con poche parole, immagini semplici e a volte dure si confessano, nel buio, l’inconfessabile. Quello che, se questo non fosse un incrocio di vecchie strade con poche silenziose finestre basse puntate alle caviglie, non direbbero mai. Quanto scotta il fuoco, quanto gela il ghiaccio dei giorni senza lei, senza scuola, con il peso degli impegni, senza niente da fare. A volte non odo risposta. Sento una pacca sulla spalla “Daje, fratè”. Per pudore talora accosto le imposte. Sono un abitante curioso ma mi sciolgo quando le storie si fanno vere da toccare.

viaggi tempo age

Oscillazioni cronotipiche

In una società che combatte tutti i pregiudizi non si dimentica ciò che conta, il denaro che può fruttare la libertà che ciascuno ha di fare ciò che desidera. Sarebbe d’altronde un peccato mortale deprimere il mercato e alimentare un pregiudizio in un solo colpo.

Se ogni essere umano è libero di ricoprire il ruolo che preferisce, allora può anche interpretare l’età che più gli è congeniale.

Tutti abbiamo l’amico che, suvvia, già dai tempi del primo bacio aveva le tempie dell’animo canute. E credevamo si sarebbe ripreso, invece si sta solo raggiungendo.

Tutti abbiamo il vicino di casa che pur avendo un’età da prepensionamento, fa la fila al centro commerciale con i giovinotti per accaparrarsi una maglia stretch, pur avendo il fisico di Tutankhamon…o del suo sarcofago.

Gli stessi esempi valgono per le donne, ma fa più pregiudiziale parlarne, e la prima sarebbe una ragazza di sani principi, mentre la seconda, un’irrecuperabile zitella, la quale cosa non si dice!

Si oscilla nel tempo perché in fondo il tempo è solo la traccia di se stesso e se si oscilla di poco l’osservatore cade nel tranello. Una decina di anni in più o in meno, se madre Natura vuole, ce li si può giocare egregiamente.

Così per essere più giovani ci sono palestre, creme, tinte, gruppi e attività ricreative, sociali e social e marchi ed etichette che fanno un grand’effetto; per essere più interessanti, invece, tinte incanutenti, mercatini di libri, accessori, abbigliamento vintage e mobilia d’antan per dare una patina di vissuto al proprio corredo, e ancora circoli di bridge o di canasta, e parole polverose da citare. Clicca qui per un quadro su questo concetto e sulla CORRETTA PRONUNZIA della parola Vintage.

Tutto sta nel timonare questa curvatura temporale alla propria volontà. Eppure accade che, anche in assenza di volontà, esseri ignari e privi di ardori modaioli quali sono i bimbi, abbiano un fare compito e supponente e sicuro e mesto e accigliato, come un vecchio tricheco, e che bimbine sane ed energiche e primaverili abbiano la solerzia e l’agilità della regina Vittoria, e finanche la sua pratica saggezza.

Un po’ come quel vecchio amico che non poteva fare a meno di essere attardato per natura sul far della sera della vita, e che poi, autorizzato dal filone vintage/hipster/dilf/neosenile, ci si è adagiato. E ora indossa il paletot, la brillantina Linetti e una sensualissima essenza di patchouli.

Quando si fa un regalo a queste persone, lo si fa in linea con le loro (supposte) volontà, non secondo la loro età bensì secondo il loro orientamento cronologico. Parimenti, quando ci si occupa di bambini e si prendono decisioni per loro, a volte si prendono abbagli megagalattici. E allora lacca, gel, fondotinta, polveri e lustrini, nastri e volà…e la bimba mi diventa una Miss. Non è un fenomeno di ieri l’enfant prodige il cui prodige è che la bimba non è più un enfant. E allora sfilata, costumino sgambato come la modella di turno, balletto macabramente sexy, movenze da smorfiosa apprese ad arte e si vince il concorso.
Se ne avranno le mamme ma, ovviamente non è colpa delle bambine. Epperò così va il mondo e a molti quegli orrori sembrano bamboline carine.
Così a questo specifico cronotipo esogenetico ne corrisponde un altro, ineludibile e personalissimo, noto con il nome di infantilismo parafilico.

Nel quadro presentato non è altro che un’ulteriore combinazione delle possibili varianti. Se si tratta di variare in più o in meno la propria età estetica e se esiste un estremo, quale il bambino che si adultera, allora è plausibile l’adulto che si infantilizza.
E, come sottolineato all’inizio, è legge che il consumismo dia seguito e faccia mercato di ogni velleità, creando così un asilo, un ricovero, un ostello, a mo’ d’asilo nido, dove il soggetto parafilico possa scorrazzare in pannolone e schiacciare un pisolino, o giocare a inserire le formine le une nelle altre e dove responsabilità e impegni non abbiano libero accesso, succede a Milano come si legge nell’articolo.

Allora via la giacca elegante e il tacco marziale d’ordinanza, via la divisa di lavoro e benvenuto pannolone. La giornata scandita da pappe e pisolini e un esaudito desiderio di piangere a squarciagola, di fare capricci e di mettere il broncio.
Non so se questo possa in fondo poi giovare all’irrinunciabile altra parte di vita di ciascuno, quella fuori dall’asilo in cui tutto quel liberatorio se stessi è bandito. Non so se sia più un mercificare una patologia o male dei tempi, ossia la boria di vivere la responsabilità. Io non sono parafilico, ma a forza di scrivere di tutto questo mi è venuta voglia di gettarmi a terra e sporcarmi tutto.

Come al solito la modernità è capace di creare prodotti più o meno incomprensibili alle generazioni precedenti. È questa l’unica conclusione plausibile che riesco a trarre dalla visione di queste foto. Il prodotto “culturale” è denominato “mirror selfie”. Da un lato c’è lo specchio, credo inventato dai Sumeri nel VI secolo a.C., dall’altro una serie di posizioni psicologiche moderne (non forzatamente recenti): Individualismo, Manie di controllo, Emulazione, Idolatria. Le foto che seguono mostrano persone, veramente di ogni età, che per potersi vedere in una Mirror Selfie hanno trascinato il proprio computer fino alla camera da bagno davanti a un enorme specchio e con nonchalance si sono scattati una foto. Io non so se quelle persone non avessero uno smartphone da sfoggiare per l’occasione,ma so che il risultato è un orrore. E mi stupisce che loro stessi non abbiano rinunciato all’idea. I soggetti considerano accettabile la foto perché in pratica non si vedono. Cioè per costoro è più importante rientrare nei canoni di ciò che determina una Mirror Selfie (le dita a mo’ di “vittoria!”, le labbra arricciate, il ciuffo ribelle e lo sfondo casalingo) che una generica appetibilità della foto secondo la realtà. In questo link c’è addirittura un mini tutorial su come fare una buona Mirror Selfie: https://www.google.it/amp/www.popsugar.com/fashion/How-Take-Mirror-Selfie-37520749/amp

Mah.

In aggiunta c’è questa che rappresenta quanto profonda possa essere l’esigenza almeno di sperimentare una Mirror Selfie. Al di là del paventato discrimine d’età.

Forse la signora, di ben altra generazione (sarà del 40?) voleva capire cosa si provasse, cosa significasse farsi una foto di fronte allo specchio del gabinetto. Come avrà visto fare ai suoi nipotini. Almeno lei usa per l’occasione, per quanto modesto, un telefono con un apparecchio fotografico integrato. E sul suo volto, per quanto distante, si legge un certo grado di perplessità. Nei giovani di sopra traspare un misto di superbia, ottusità e malinconia, al contrario. E alla proposta di farsi una selfie seduti o in piedi di fronte all’obiettivo del computer posato sul suo tavolo, probabilmente risponderebbero che il risultato sarebbe una noiosa foto da webcam anni 2000. Io che sono dell’85 mi sento molto confuso.

Gli animali, come sempre sorprendenti irrompono nelle notizie, nei curati siti di informazioni delle testate nazionali. E lo fanno così come fanno le cose le bestie: senza preavviso, senza pianificare. Colorano il centro città di puro bianco. Di bianco vero, quello sporco, pieno di sfumature di giallo di grigio e di verde d’erba. Un bianco lontano da quello delle camicie inamidate che corrono nei corridoi dei palazzi del potere; lontano dal bianco luminoso del gelato al fior di latte nelle gelaterie per turisti. Lo sguardo delle bestie è come lo sguardo dei bambini e degli anziani, vuoto di niente e pieno di tutto; posato su tutte le cose per non lodarne nessuna, purtuttavia meravigliandosi di ognuna. Questi animali da fattoria, gioia per gli occhi dei pastori, materia svelata per gli operatori del campo, si spandono come un liquido prezioso per le vie di una città che trae il suo nome dall’abbondanza d’acqua, dovuta alla presenza del fiume Manzanarre, considerato verso all’inizio del millennio scorso matrice delle acque dell’area dell’odierna e caotica capitale europea. Ogni anno Madrid celebra dunque il chiassoso rituale della transumanza, la stessa di cui parlava D’Annunzio, di qua del Tirreno. Una tradizione che da millenni sulla Terra praticano due specie: l’uomo e le api. Le pecore sono tuttavia le stelle della fiera: fiere, chiassose, voraci, distratte. Riportano un po’ di Castiglia nell’Europa che dimentica il suo folclore, perché le pecore, come ogni essere sensato non dimentica chi è, mentre vive. Per non eccedere nel folk e nel classico, la Provincia autonoma di Madrid reclamizza l’evento con un nome mostruoso: TrashuMad. Dentro c’è l’attraversare; il nome della terra da cui deriva il nome uomo, humus, la terra umida che nutre fiorisce e alimenta; infine figurano le prime tre lettere del nome Madrid, che come molto del lessico più antico è oggetto di numerose interpretazioni: una è quella di “matrice d’acqua”, un’altra parla di orsi e alberi di corbezzoli, presenti nella zona e sul gonfalone della città, un’ultima la considera città di fondazione osca, una Mantua del passato.

L’oroscopo non fa mai male fintanto che lo prendiamo così com’è, senza ricamarci su. Se dice qualcosa di sensato bene, altrimenti non ci ha preso. A proposito di oroscopi ho sempre avuto un debole per Paolo Fox, poi, certo, la vita presto si complica e quello che sembrava il gioco del giorno allarga le braccia e include anni e corsi e ricorsi di atti inconclusi; così che le poche e fievoli parole delle stelle non illuminano più la strada.

L’incognita del giorno è dedicata all’inventiva umana, la capacità di rendere tangibile ciò che non esiste in quanto inutile. Almeno in questo caso.

È un po’ che mi va Phil Collins. Proprio lui. “Feel Collins”. “Viel Collins”. Che come lo metti lo metti, ci sta. Suona bene anche in tedesco e vuol dire ‘Molto Collins’. La voce è chiara e a tratti, quando serve, si stira e soffre un po’. A volte, nella maggior parte dei casi a dire il vero, a sentirlo cantare viene voglia di fare una festa. Phil è così giusto e corretto che nemmeno l’auto-correzione in Word lo corregge. Ai sostenitori della musica nera magari risulterà un po’ pallido e composto, ma documentandosi sulle sue performances si scopre tanto sudore, tanto sangue in ebollizione che non ti immaginavi, eppure la grazia del suo britannico cinguettio rimane intaccata. La voce serpeggia tra drum set diversi e corde di chitarra e corde di banjo e suoni elettronici e ensemble orchestrali. E come lo metti, lo metti, ci sta. Perciò stamani mi sparo Phil e mi innamoro un po’ del suo canto e del suo suono esatto. Se clicchi qui accanto te lo senti anche tu e magari condividerai.

Il mattino, così luminoso come è stato in questi ultimi giorni, mi mancava un po’. Un lungo inverno, quest’estate si è rubato il tempo che avremmo passato sotto il sole pieni di voglia di restare fuori e goderci l’aria mobile della città in versione estiva e ci ha chiuso dentro, come la strega cattiva delle fiabe. Ma dei Raperonzoli come noi non si abbattono facilmente, sono uno dei domini tassonomici, il livello più alto della classificazione scientifica in cui si dividono gli esseri viventi. Il criterio per la distinzione di questo dominio dall’altro, procarioti, è la presenza di nucleo interno ben definito e isolato dal resto della cellula tramite l’involucro nucleare, nel quale è racchiusa la maggior parte del materiale genetico, il DNA (una parte è contenuta nei mitocondri). Gli eucarioti sono quindi gli organismi viventi uni- o pluricellulari costituiti da cellule dotate di nucleo, distinti dai procarioti (gruppo parafiletico), le cui cellule procariote sono prive di nucleo ben differenziato.È un po’ che mi va Phil Collins. Proprio lui. Feel Collins. Viel Collins. Che come lo metti lo metti, ci sta. Gli eucarioti (dal greco εὖ eu ‘vero’[1] e κάρυον káryon ‘nucleo’) sono uno dei domini tassonomici, il livello più alto della classificazione scientifica in cui si dividono gli esseri viventi. Il criterio per la distinzione di questo dominio dall’altro, procarioti, è la presenza di nucleo interno ben definito e isolato dal resto della cellula tramite l’involucro nucleare, nel quale è racchiusa la maggior parte del materiale genetico, il DNA (una parte è contenuta nei mitocondri). Gli eucarioti sono quindi gli organismi viventi uni- o pluricellulari costituiti da cellule dotate di nucleo, distinti dai procarioti (gruppo parafiletico) , le cui cellule procariote sono prive di nucleo ben differenziato.È un po’ che mi va Phil Collins. Proprio lui. Feel Collins. Viel Collins. Che come lo metti lo metti, ci sta. Gli eucarioti (dal greco εὖ eu ‘vero’[1] e κάρυον káryon ‘nucleo’) sono uno dei domini tassonomici, il livello più alto della classificazione scientifica in cui si dividono gli esseri viventi. Il criterio per la distinzione di questo dominio dall’altro, procarioti, è la presenza di nucleo interno ben definito e isolato dal resto della cellula tramite l’involucro nucleare, nel quale è racchiusa la maggior parte del materiale genetico, il DNA (una parte è contenuta nei mitocondri). Gli eucarioti sono quindi gli organismi viventi uni- o pluricellulari costituiti da cellule dotate di nucleo, distinti dai procarioti (gruppo parafiletico), le cui cellule procariote sono prive di nucleo ben differenziato. Gli eucarioti sono quindi gli organismi viventi uni- o pluricellulari costituiti da cellule dotate di nucleo, distinti dai procarioti (gruppo parafiletico) , le cui cellule procariote sono prive di nucleo ben differenziato.È un po’ che mi va Phil Collins. Proprio lui. Feel Collins. Viel Collins. Che come lo metti lo metti, ci sta. Gli eucarioti (dal greco εὖ eu ‘vero’[1] e κάρυον káryon ‘nucleo’) sono uno dei domini tassonomici, il livello più alto della classificazione scientifica in