Festa di paese

Sono stato a una festa di paese. Una con una storia strana: nata in California un secolo fa e riportata indietro da emigranti d’altri tempi; festa delle rose oltreoceano e festa dei narcisi qui, nel mezzo di una piana popolosa. Di narcisi ce n’erano, eccome. Lungo la strada di fronte al cimitero, dalle vetture parcheggiate sono scese persone di tutte le età. Gli uomini si sono arrotolati le maniche e le donne si sono legate i capelli. Si sono incamminati giù per il prato brillante e con mani morbide hanno raccolto una dozzina di fiori ciascuno cogliendoli dallo stelo, fresco e cavo, cresciuto alto in mezzo all’erba suggendo rugiada. Li hanno tenuti con una sola mano, con l’altra hanno tirato fuori da una tasca un legaccino per tenerli insieme e li hanno portati all’automobile. In qualcuna di queste, ad aspettare, c’era una nonna dalle calze pesanti, le gambe gonfie e l’acconciatura della domenica. La nonna giù nel pratone era scesa tante volte, così tante che non riusciva più a farlo. Per lei il suo sangue scende quest’oggi a raccogliere i narcisi, per poi porgerle quel morso di primavera e lasciare un sorriso sul suo volto severo.

Più in là sulla strada di ghiaino si entra in paese: tutto è preparato.
Mentre io vengo da una giornata qualsiasi e da un risveglio come tanti, qui questo mattino non lo è affatto. Nei bimbi brilla l’eccitazione della festa, per gli adulti è tutto un brulicare di compiti da svolgere, per gli anziani è un giorno vissuto a memoria: la loro eccitazione è saggezza, la loro perizia è richiesta in ogni angolo del paese. Mentre ognuno di questi duella con la propria emozione, c’è un sentimento comune che muove da lontano e prende possesso di tutti, delle loro menti, delle azioni, dei loro corpi, dei loro indumenti e li trasforma. Quest’oggi non è il Natale, non c’è un ospite a casa, non si deve rassettare la cucina né sprimacciare i cuscini per fargli piacere. Oggi è la festa dell’intera città. Oggi c’è un largo noi, pronto a dare il benvenuto a quanti entreranno: lo dicono le panche del corso, lucide e nette, i vasi di fiori nuovi appesi alle finestre, l’aiuola sgombera da foglie cadute, i gatti, famelici esperti di vicoli che guardano il forestiero con restia attrazione.

La città già brulica di sguardi, è l’ora. Io non sono che uno dei tanti che si accalcano e premono contro la fila di transenne che disegna uno dei lati del percorso che si snoda nel centro del paese. Sono agile, passo avanti e mi sistemo proprio lungo la traiettoria della parata di carri. Arrivano.

Uomini, cartapesta, eleganti profumi da signora, sudore, tempera, legno, dopobarba, sigaro, grasso da ingranaggi. L’angolo di uno dei carri non regge lo slancio e, seppure in lentezza, quasi mi sfiora il naso. Un gruppo di ragazzi mi chiede se è tutto a posto e io dico di sì. È tutto a posto, ma mi sono innamorato. Da quando è stato fischiato l’inizio della festa c’è ovunque un profumo pungente e irresistibile d’impegno. Mi innamora questo intrico di sguardi seri che corre dal primo all’ultimo della fila e tiene in piedi “questa cosa che facciamo insieme”. Mi infiamma la verità di questi movimenti coordinati, l’efficacia di questo cooperare forte, pulito e allenato; vedo, nella mano che afferra, la mano che ha afferrato, tante volte da conoscere il gesto a memoria. Noto l’anziano che alza il nipote perché veda meglio e più da vicino questa festa fatta di duro lavoro. Vedo risolvere problemi, pazientare e ripetere il giro per ore, vedo sperare nel premio finale. Vedo la ragazza che chiama l’amica: “Guardalo, Madonna che bono, fagli una foto” “Hai capito, mo’ perché t’ho detto de fa veloce?”. Sorridono. È vero, lui è bello, ma loro di più e tutto questo è tanto romantico quanto antico.

La sfilata di carri è stata un successo. C’è un vincitore, ma tutti sono colti da orgogliosa commozione. Appludiamo -ormai siamo tutti uno- e ci guardiamo negli occhi. I paesani sono sudati, esausti, dopo ore a trascinare le idee, i progetti, la fatica di un intero anno in trionfo per il corso. Noi abbiamo urlato e riso e indicato e incitato. Io vorrei dargli la mia mia gratitudine, la mia devozione, il mio cuore, la mia solitudine urbana perché mi insegnino a farne una festa. Mi battezzo nella loro fatica e penso alla mia. Ogni talento, dopolavoro, impegno e ogni attività amatoriale costano tempo ed esauriscono tutto, estraggono l’essenza fino a svuotare e dare un senso a un’intera esistenza. Lavorare insieme per uno scopo è un’attività così viva che la visione stessa ravviva. Da questa festa di paese sono tornato a casa pieno di speranze, tanto che anche la spenta aria atomica della città mi sembra brillare come quei petali di narcisi bianchi.