La Vergine di corteccia

Sono uno di quelli che dicono di sì. Quelli che dicono di sì, ma non hanno capito un cazzo. Potrebbe dirsi che sia un bugiardo, ma lo sono in un modo specifico e ingenuo. La realtà è un po’ quello che mi sembra e a me piace raccontarla così. In fondo, non sono io a mentire alle persone, è la realtà a farlo con me. Troppa immaginazione e un tot di voglia di crederci.

Così, un giorno…In un parco, pieno di dislivelli e di piante che profumano vieppiù con l’aumentare del caldo dell’aria: sono vestito a puntino, canottiera tecnica, pantaloncini elasticizzati, scarpe comode. Sono venuto a correre, tanto per fare un po’ di movimento, per stare all’aperto, come si fa con i panni stesi fuori, che, poi, profumano di più e sanno di buono. È un percorso che conosco. Già fatto. Ma, un po’ per gioco e un po’ per spronarmi, vivo tutto come fosse nuovo. Quindi, di colpo m’inganno, cambio percorso e lo attorciglio, lo intrico per fingere di perdermi e poi di ritrovare, tronfio, il sentiero. Mi fingo di disconoscere un luogo che ho già visto per certo e di riconoscerne altri mai sfiorati e di sapere dove conduce il cammino che li costeggia: “Ah, sì, sì. Certo”.

Passo accosto a un silos diroccato, in dosso a una collinetta che svetta nel centro di una parco di brada campagna urbana, dalla cima si vede sino ai monti che circondano la città. Da qui, non certo le case, ma riconosco la forma dei paesuoli che punteggiano quei monti (o almeno così mi mento di fare), se fossi con qualcuno, direi: “Quello è…”, con aria seria.

Proseguo, noto dei folti arbusti di alloro (me lo dico con sicurezza: “Ah, l’alloro, sì”, mi avvicino, prendo una foglia, la annuso. A volte non sa di niente, altre della secca terra di cui è ricoperta, “sì, sì, è alloro” dico, come se qualcuno mi ascoltasse). Faccio un paio di svolte veloci, mi ritrovo sempre altrove, “Ora c’è…no”, “Ah, ecco, ora a sinistra e si ved…no”. Non mi faccio mai trascinare un po’.

Risalgo da dietro una cunetta e spunta il fianco di una costruzione antica, un casale, uno spiazzo e alcuni alberi che la circondano, gli eucalipti alti e frondosi fanno da muro, negli interstizi tra l’uno e l’altro intravedo scorci, ancora alberi, pietre sistemate in un vialetto. Mentre continuo ad avvicinarmi seguendo il sentiero curvo, tutti questi frammenti di immagini si muovono con me. Vedo la spalla di un muro basso, un vaso di fiori.

Vedo e ricordo. A destra della fila di eucalipti, uno spazio aperto e un cancello basso in ferro battuto rosso. Oltre un piccolo scalino a scendere, un viottolo di sassi tondi e lisci, buoni sotto la suola delle scarpe. L’aria è umida e nutriente e, dirimpetto al cancello, c’è un muretto coperto di muschio. L’aiuola che corre lungo il muro è stellata di ciuffi di fiori rosa. Nel mezzo del giardino, tra i ciottoli bianchi si staglia una piccola vecchia fontana di pietra, con un timido zampillo, ostruito dalla terra, da altro muschio, dal tempo. Nell’angolo opposto all’entrata c’è la padrona di casa: in una nicchia alta un metro e mezzo, circa, ritta in piedi, c’è una statua della Vergine, tutta bianca, con i dettagli un po’ sbiaditi, consunti dal vento e la pioggia, ma sorprendentemente candida. Ricordo di essere entrato con la mia dolce metà in quel placido giardino, di aver sorriso, insieme, alla statuina; di aver respirato con calma; di aver letto qualcosa insieme, una placca commemorativa, forse, di una suora vissuta lì, o di un miracolo per cui si rendeva grazie erigendo quel luogo di pace. Ricordo che ne siamo usciti guardandoci negli occhi, rasserenati.

Nel ricordare, rallento il passo. Svolto a destra per passare di fianco, per vedere l’ingresso, per vedere il muro dietro, per vedere meglio, per vedere cosa? Sono costretto a ravvedermi, non c’è nessun giardinetto. C’è uno spiazzo, e un cippo d’albero reciso, nel mezzo. Al suolo, la nuda terra, polverosa arida. È un luogo desolato. Non c’è un cancello, ma pietre su cui inciampare. Il muretto è una siepe scura e la Vergine, una macchia sull’albero nell’angolo sinistro dello spiazzo. Una macchia bianca sulla corteccia argentea, candida davvero. Un po’ allungata, certo, con la porzione superiore stretta e tonda, come un capo, certo. Ma è inutile giustificarmi, e con chi, poi? Il parco della Vergine non c’è. È stato una fumosa creazione, rapidamente assemblata e vissuta intensamente. Un ricordo vivido, un sogno ludico, un gioco onirico. Ci tornerò, magari non da solo e magari racconterò a qualcuno dal vero, dov’erano le cose nel mio immaginato giardino di pace. Vorrei dirlo ad alta voce, anche solo per sentire come suona. Come quando ti ripeti una parola, che non sai se l’hai inventata lì sul posto.

Mi vergogno un po’ che la mia mente mi menta tanto. Ma sono così, sono un bugiardo di un tipo specifico: è la realtà che mi mente e a me piace crederci.