Omini di zucchero

I giovani operai lavoravano alla facciata esterna: le rifiniture, qualche ritocco e qualche rinforzo. La stagione era incerta, era stata un’annata difficile in tutto il paese. Gli operai si adattarono e affrontarono quel lavoro vivendo alla giornata. Raggiungevano il palazzo tutti insieme, stipati in un piccolo camioncino colorato. Scendevano, scrutavano il cielo e decidevano di mettere mano all’opera oppure, in caso di pioggia, rimontavano a bordo. Dietrofront. E si lasciavano alle spalle le malte madide, i trabattelli sparsi d’acqua e le pile di mattoncini puntellate di goccioloni.

Con quelle giornate birichine si era finito per avere non più di due o tre giornate di lavoro certi ogni settimana. La durata del restauro si era estesa oltre ogni previsione e a palazzo se ne faceva un gran parlare. Chiunque avrebbe preferito un vorticoso traffico di calcinacci e vernici aromatiche a dissestare tutte le stanze e squassare le abitudini e i silenzi della casa per un tempo breve, rispetto alla lenta e agonizzante cantilena di colpi che si ripeteva fin dalle prime ore dell’alba, o intere stagioni dietro finestre serrate, in un manto di fina polvere.

Gli operai erano affidabili, sereni e allegri, persino, non parlavano molto, spesso canticchiavano o fischiavano. Dovevano essere di fuori città, alle volte tiravano delle grida per indicare il proprio passaggio, ogni giorno ripetevano a memoria gesti tutti uguali. Mostravano altre volte un’ombra di timore e timidezza, forse una certa indolenza e comodità. Specialmente di fronte al meteo: bastavano poche gocce per vederli accorrere al camioncino e sparire fino al giorno seguente; similmente nei giorni di caldo estremo si rifugiavano all’ombra, cercando, con sottile urgenza, di rifuggire la canicola. E dal di dentro delle finestre chiuse del palazzo si mormorava.

A palazzo si decise di recuperare il tempo perso e reistaurare un po’ di disciplina, si conferí con il capocantiere e si decretò che gli operai si sarebbero mostrati più disposti a lavorare sotto un lieve gocciolio, più tolleranti con il bigiore o lo splendore di alcune giornate. E proprio di lì a poco si ebbe uno di quei giorni che iniziano nella luce e si vanno spegnendo. La ditta arrivò puntuale, lasciò il veicolo a lato strada e si dispose a lavorare. Fischi e grandi slanci di voci: “UUU”, “IIIIII?”, “EEEEE!”. Poi d’un tratto una nube imponente oscurò la facciata, e piombò il silenzio. Ma laddove normalmente gli operai sarebbero filati via correndo, proseguí il lavoro, dimesso, costante e per una volta, avvolto da una coltre d’aria umida.
Un vecchio inquilino guardando fuori e vedendo gli operai lavorare sotto la fitta e lieve pioggia si rallegró per la forza della gioventù che tutto sopporta e che in lui non dimorava più ormai da tempo.

Ma quei ragazzi, sorpresi dalla pioggia, non avevano reagito, si erano attenuti alle nuove direttive e a capo chino avevano continuato a levigare, pennellare e ritagliare tra le quinte dei ponteggi, quieti e tristi. Dentro il palazzo tutti videro la pioggia e sentirono i martelli martellare e le seghe segare. Dapprima ne rimasero stupiti, poi contenti e ben presto sembrò loro normale, tanto che non ci fecero più caso.

Giunse la sera in quel giorno di pioggia continua. Spuntò la luna e da palazzo qualcuno si affacciò e vide il camioncino degli operai ancora di fronte al portone, posteggiato. Nessuno aveva notato la fine dei lavori, né il rumore degli scarponcini rampicare con pesantezza giù dalle strutture di ferro, ma non se ne stupì. Ognuno, in fondo, era rimasto fermo a badare agli affari propri.

Piovve ancora fitto e lieve tutta notte e al mattino torno a splendere il sole. L’indomani, come ogni giorno, un plotoncino di bambini costeggió il palazzo per raggiungere la vicina scuola, rallentò e si fermò. Si raccolse tutto attorno un’ampia pozza che si era formata proprio sotto i colatoi e le grondaie. Larga, densa e per di più colorata, ambra, forse anche color miele.

Il più audace fece un passo fino al bordo e prima ancora che la maestra avesse il tempo di aprire bocca, vi intinse un dito e lo portò alle labbra. “Melassa!”. Gli altri bambini sgranarono gli occhi e si avvicinarono al liquido. Qualcuno tirò fuori una matita per raccogliere quella curiosa materia viscosa e farne una caramella da suggere via andando. Era saporita e sembrava fresca, era pura come pioggia che cade diretta sulla lingua, ma in più sapeva di mirtilli, di cannella, di zucchero a velo, d’agrumi.

Gli operai, nessuno li vide più; quanto ai bimbi, non dimenticarono mai quella giornata.