Siamo i batussi

21/6/1987 – Sembra ieri

Ricordo, ma non per forza, di aver cantato sempre: in casa, in automobile, in vacanza, sulla strada di scuola. Ricordavo le parole, ma non per forza, e le cantavo come fossero una formula incantata, filata e tessuta da qualcuno di lontano e lasciata accanto a me perché io me ne cibassi. Ricordo la melodia, ma non per forza, e se non la ricordo affatto ci giro in torno finché tra tutto quello che ho cantato non resta che cantare quello che non ricordo.

In un ampio salone assolato, accosciato, sceso in basso fino al testolino distratto di un bimbo paffuto, Giovane Padre cerca le parole per spiegare che la voce può essere scritta su un nastro e riavvolta, tante volte, a piacere. Bambino lo guarda con stupore, vorrebbe mettere insieme le parole e capire, ma sono tante, veloci e complicate. Seppure quello che dice resta un groviglio di suoni oscuri, tuttavia Giovane Padre sembra sincero, sembra avere buone intenzioni, è sorridente come sempre e il sole del salone gli illumina il volto e i capelli chiari. Bambino decide di fare come dice.

Giovane Padre controlla il registratore, già preparato sul tavolo bianco: il nastro, il cavo, il volume. È il momento di premere Rec, ma prima, per un istante, getta uno sguardo verso Bambino che a sua volta si guarda intorno, sognante. Giovane Padre si augura che non sia un altro tentativo a vuoto, altro nastro tappezzato di ricordi da niente: un mugugno, un capriccio, la risposta a una frase della nonna, un giocattolo che cade e fa un rumore secco. Ma oggi ha una buona sensazione, forse è il giorno giusto e Bambino sembra calmo e deciso a cooperare.

Basta. Si preme Rec. Ciak, si canta. I pomeriggi ad ascoltare la musica e cantare con l’ultimo boccone della merenda stretta in mano sono lì ad un passo da diventare un ricordo per il futuro. Giovane Padre e Bambino si guardano negli occhi. Ecco quella canzoncina che accompagna le passeggiate nel verde e il piccolo tratto in salita verso casa della nonna. La voce chiara e svelta di Giovane Padre è un invito a cantare, e Bambino non si fa pregare. Canta. Le parole si fanno un groviglio, di nuovo, ma stavolta non importa perché c’è la musica di mezzo, che è una cosa speciale tra lui e Giovane Padre: è una sostanza che li unisce e li invischia come fa la glassa lucente sulla frutta di una bella torta di compleanno, che a guardarla di sfuggita sembra imperlata di gioielli.

Qualche momento più tardi è un’estate di molti anni prima. Il motivetto è comodo da cantare. Per Bambino nessuna di quelle parole ha un senso, cosa siano i “papaveri”, i “batussi”, il “pattino” alla fine non importa, ma quella cosa di cantare insieme è davvero bello e a lui e Giovane Padre viene proprio bene.

Giovane Padre si discosta un poco, allunga un braccio verso il registratore, mentre con l’altra mano tiene Bambino. Questi prosegue la canzone così come gli viene, ma un raggio di sole lo abbaglia per un istante, così la melodia si interrompe bruscamente. Bambino si protegge lo sguardo con la manina. Giovane Padre prima di premere Stop infila gli occhi per un istante nel futuro, e parla a tutti i padri che sarà un giorno e a tutti gli uomini che un giorno sarà Bambino. Così, come in un film di fantascienza, ferma un punto nel tempo, con un ago in mano cuce un punto in un giorno del 1987 e tira tanti fili quante saranno le occasioni di ascoltare questo estratto, tessendo una tela di fibra forte, tirata da un salone assolato al settimo piano di un palazzo di mille ricordi lontani.