Oggi non è un giorno qualsiasi. Non è come tutti gli altri, anche solo per come è cominciato. Dai primi gesti già si vedeva che le cose sarebbero andate diversamente dal solito. Forse persino qualche intuizione di ieri sera poteva far presagire: in frigorifero c’era della frutta comprata da qualche giorno, l’ho tirata fuori, per fare oggi una colazione diversa senza mangiare frutta troppo fredda, per non improvvisare.

Bi, bi, bip. Sveglia. Mi sono alzato e ho attraversato il salone, ascoltando il giornale radio come ogni mattina. In cucina c’era una luce tenue, la luce giusta per incominciare una giornata dopo ore di buio, con le palpebre serrate strette tra loro e ricamate di sogni leggeri. Il pavimento era freddo e un brivido mi è scorso lungo il corpo risvegliandomi. Fuori, in strada già iniziavano i chiacchiericci, le corse, le frenate rumorose, qualche bisticcio da autista impaziente. Ho visto la frutta. Nel mezzo, un mango .

L’ho afferrato, non era freddo, come la sera prima, durante la notte aveva liberato nell’aria quel gelo e ora era liscio e caldo come la spalla di un amico, o come, da ragazzi, le ginocchia di un’amica, su cui posavo la testa per guardare le stelle cadenti d’estate. Con un coltello lavato l’ho pelato e ho tastato la polpa per saggiarne la maturezza. Pareva proprio un buon mango. Ho infilato il coltello di taglio nella polpa, ma quella polpa lamellata che ha un verso e una tensione interna di corde, si è opposta. Il filo seghettato della lama si è impigliato in quelle funi che si tirano nel corpo del mango. Così mi sono fermato. Era tutto scivoloso e si muoveva nella mia mano. Ma ho stretto un poco e i polpastrelli sono affondati per un millimetro nella polpa, facendo presa. Nella fretta, nel sonno, nella scarsa luce, con le terga percorse da un brivido ho travisato la realtà e optato per la scelta meno saggia, quella che avrebbe fatto di questa giornata una giornata diversa.

Ho aperto la bocca e accostato le labbra alla polpa arancione, ho sguainato i denti e, deciso, ho affondato il colpo. Tutti insieme quei lacci mi sono scorsi tra i denti, che ho avvertito distanziarsi lievemente. Erano fili che sembravano non finire più, per un breve istante la sensazione mi ha dato piacere: un tocco, un morbido massaggio alle gengive. Ma poco dopo si è palesato il disastro. In silenzio, nel buio della bocca gli sfilacci della polpa del mango si sono strappati, rovinosamente come una fune legata a una bitta che si sleghi e lasci un vascello alla deriva. In quel momento ho visto chiaramente nel mio futuro prossimo, una foresta di liane, una mangrovia zuccherina color arancio, e tutta ben piantata e radicata tra i miei denti. Che fare? Lo sapevo, non era il mio primo mango, forse era un mango particolarmente cordato, sfilacciato, ma lo era segretamente, senza dichiararlo apertamente. Un mango senza onore.

Era ormai il momento del secondo morso. Attendere e liberare il passo per poi tornare a ingombrarlo era inutile, ho scelto di attraversare ancora una volta il fitto del bosco. Serro la mascella e ancora una manciata di sfilacci mi sferza la bocca sconcertata, questi denti accarezzati e poi vilmente traditi. Con mia sorpresa, i filamenti si sono sommati ai precedenti, riempiendo i piccoli spazi vuoti e in questo mi ha travolto un’istinto animale. Un terzo morso, ho ruotato il frutto come fosse su uno spiedo, un quarto morso, ben assestato, ormai non mi importava niente, un quinto morso, sembrava tutto un sogno di denti digrignati contro un mostro impellicciato e impiastricciato di miele. Finalmente, il bizzarro nocciolo del mango. È stato come toccare terra dopo un viaggio burrascoso. I denti grattavano sulla parete villosa del duro cuore del frutto, cercando sollievo, cercando di liberarsi. Inutile. Era come se mi fossero cresciuti dei lunghi e fitti baffi ma all’interno e in una manciata di secondi. Ho strappato dai denti quell’alieno osso di seppia che resta di un mango mangiato, allacciato e annodato alla mia dentatura. Mi sono portato allo specchio del bagno e ho aperto le fauci: peli appesi, gialli e rossi, materia colante e folta, ciuffi fruttati diretti in ogni dove. Non sapevo da dove iniziare.

Ho passato del filo tra gli incisivi come per la cruna di un ago e ho tirato piano con il desiderio di provare il sollievo di un rapido distacco. Ma niente, stropicciati, agglomerati, cardati e torti, quei filamenti hanno continuato a divaricare incisivi da incisivi e da canini, randagi, maledetti. Ho fatto ancora dei tentativi, ho sanguinato, persino. Mi sono arreso e ho mollato la presa, sommariamente ho stracciato via quanto potevo senza ferirmi troppo. Ho continuato a muovere in circolo le labbra strette, come un roditore al truogolo, mentre con la lingua piegata in ogni direziome tentavo di liberarmi. Ho continuato a prepararmi, mi sono lavato, incremato, vestito, fermandomi di tanto in tanto perché avevo l’impressione di essere quasi riuscito a liberarmi di un ciuffo. Ma niente, un altro falso allarme. Sono uscito di casa con questa bocca affaticata di ciglia glicemiche. Ho camminato fino al lavoro, ho salutato delle persone a bocca serrata, ho preso l’ascensore, ho aperto la porta della stanza, ho acceso il computer, ho risposto ad alcuni messaggi, ho camminato nel corridoio sorridendo sommessamente, segretamente baffato. Ho pensato, risposto a voce, tutto con questo gomitolo di lane nella bocca. Poco a poco, pelo a pelo mi sono liberato un poco, con fatica. Ma ho mantenuto questa espressione da uomo pensieroso, da genio incompreso. Che avrò mai avuto in mente? Un’intuizione o solo la sensazione di aver divorato un pelame; di un morso a un covone di paglia e nient’altro. Oggi non ho pensato a nient’altro che ai miei canini pelosi.

Anche ora, in queste mezz’ore rubate all’aria su un aereo per l’impero, sento a tratti qualcosa che si muove, come un ramo di salice mosso dal vento. Un mango che mi è costato una giornata di smorfie geniali, un mango traditore, di buon sapore e barba à la mode. Una giornata diversa, con un centro e poche distrazioni, fatta per muovere piccoli muscoli che non muovi mai, parlare poco e sorridere il giusto. Vorrei esistesse un proverbio adatto per gli ingenui come me: “Non mordere il mango che non fende la lama”.