C’erano piccoli momenti condivisi in cucina. Nei giorni di festa o d’estate, in attesa di invitati o di un pomeriggio ad oscillare tra il divano e l’ombra del giardino.

C’erano piccoli momenti e c’era un piccolo me. Ero di certo alto abbastanza da arrivare al tavolo della cucina, ma non abbastanza da ricordare oggi, di quei momenti, più delle mani di mia madre. Mentre queste afferravano il sacchetto di carta marrone e tiravano fuori le verdure da tagliare, restavo incantato a guardare i movimenti delle dita, della lama grigia, delle carote decapitate e le lattughe gambizzate.

In ginocchio su uno sgabello, con l’altra gamba a penzoloni, in spregio a qualsiasi norma di sicurezza, tenevo il peso sui gomiti, affacciato sul tavolo della cucina come fosse stata un’ampia finestra aperta su un giardino da contemplare. Alle volte mi prestavo a piccoli lavori di supporto: lavavo la lattuga, asciugavo le verdure lavate, mi arrampicavo per tirare giù i condimenti. Lavare e asciugare l’insalata nella centrifuga, era di gran lunga il lavoro che più amavo. Era un’operazione di una certa complessità, di cui avevo imparato a memoria la sequenza esatta dei movimenti e che includeva una quota di mistero, un luogo chiuso, un moto rotatorio e una parola sdrucciola a compiere il rituale.

Fuori il sole scaldava le piastrelle rosse del patio e c’era un gran via vai di persone dalla spiaggia. Nel nostro giardino c’era la quiete più assoluta e un desiderabile fronte d’ombra sotto le chiome curve dei pitosfori assetati. A volte facevo delle incursioni fuori nel patio per raccogliere un rametto di rosmarino o perché una voce sconosciuta mi incuriosiva.

Terminate le scorribande all’esterno, tornavo allo sgabello e ai rituali della cucina: fini fettine di finocchio piangevano e inzuppavano il canovaccio; le carote mostravano a tutti la loro anima chiara e lunga, che le attraversava da capo a fondo; al rosmarino si depilavano le lunghe e magre zampe e di tutta la sua presenza non si usava che quell’ispido velo che profumava di mare. Come in tutte le grandi opere, avevo un nemico. Il pomodoro.

A me in fin dei conti il pomodoro era simpatico: paffuto e dolce, mi rallegrava l’insalata. Ma aveva un vizio stramaledetto che non mi spiegavo. Usciva rotolando dal sacchetto di carta marrone e si avvicinava panciuto, ma a volte finiva per mostrarmi il lato sbagliato, ossia quello su cui quel vegetale criminale offriva ospitalità a un essere del tutto estraneo. Il ragno.

Quel ragno gli viveva proprio in cima al capo, al pomodoro…come fosse un cappellino infestato, con le zampe tutte contorte e inamidate. Quando uscivano i pomodori restavo guardingo. Sapevo come sarebbe finita. La mamma li prendeva, li lavava e io guardavo le sue mani dalle unghie rosse e lucide, maneggiarli con destrezza. Poi li afferrava dal di sotto e con la mano opposta afferrava tutte insieme le zampe del ragno e d’un colpo, dava uno strattone. Lì dove il ragno si era stabilito, chissà da quanto, restava un segnaccio, un morso esangue che non si cancellava più.

Ora, complici le lunghe giornate libere e una mia reticenza a nascondere gli stati d’animo da quel momento di scatenava un putiferio. In parte lo attendevo, in parte temevo quello che stava per accadere. La mamma, forse punta da quel ragno in cima al pomodoro ne afferrava uno e a poco a poco alzando la voce, gridava: “IIIIL RAAAAAAAGNOOOO!!!”, io saltavo dallo sgabello e correvo a rifugiarmi sul divano, sotto un cuscino. Il suo braccio brandiva il picciolo contorto e terrificante e si intrufolava nel mio nascondiglio. Allora saltavo dal divano verso la cucina e andavo al secchione perché lei tornasse in sé e ricordasse che era il caso di gettarlo.

Finivamo quella breve lotta entrambi concitati, spettinati e con le guance rosse. La mamma rideva tanto e anche io, soprattutto perché sapevo che alla fine mi spettava un bacio. Mentre la mamma si avvicinava le guardavo le mani per assicurarmi che non ci fossero ancora sorprese in giro e di corsa guardavo nella pattumiera e lanciavo uno sguardo di sfida al ragno che giaceva acquattato nell’ombra del sacchetto della spazzatura tra scorze di vegetali imputriditi. Avevo di nuovo vinto la battaglia, ma la nostra era una guerra aperta.

Quei pomeriggi e gli sguardi e i gesti ancora li vedo quando mia madre cucina, prepara qualcosa. Non sono più scappato dal picciolo del pomodoro da quando mi sono arreso ad alcuni compromessi da adulto. Ma a quelle risate e alle fughe in calzini verso il soffice divano ci penso sempre e penso che per questo, come per molte altre cose, guardo a quell’antico nemico come a un segreto alleato, custode di una memoria sacra che conserviamo e proteggiamo in due, con un patto solenne, da uomo a ragno. Da figlio a madre.

Sofa righe gialle nonna Rosa

Cerco di vivere semplicemente, eppure sono circondato da oggetti, sommerso. Mi sono guardato intorno un giorno e mi sono chiesto: “di tutte queste cose, cos’è ‘mio’?”. Alcune cose le possiedo perché le ho acquistate, le ho scambiate con un po’ di denaro, con il tempo passato in silenzio a lavorare. Le ho scelte, indicate, cliccate e le ho legate a me. Altre le ho ricevute in regalo per un’occasione speciale: una lampada di sale per la Laurea, un porcellino di terracotta ad un compleanno, delle lenzuola effigiate con la Union Jack per un compleanno, un maglione dal Cile in un Natale lontano.

Tengo queste ultime cose, in particolare, con speciale affetto, anche se alcune non le uso neanche più. Sono la mia forza e il mio amuleto contro gli sguardi cattivi. Ovunque io vada sono la mia casa. Le ho scartate e ho ringraziato. È così che le ho possedute.

Ma c’è una cosa che possiedo più di ogni altra: un divano a righe bianche e gialle.

È nel salone e ogni giorno mi accoglie al ritorno dal lavoro, che io abbia vinto o rincasi sconfitto, mi abbraccia con lentezza. Rispetto alle altre cose che ho, il mio divano ha una storia sua. Una storia che ha avuto prima di essere mio. Una storia di cui ho fatto parte sul finale, come l’ultimo attore a entrare in scena, che recita meno, ma prende comunque tutti gli applausi. E lui è il mio applauso.

L’ho pagato con una moneta speciale: le parole, i ricordi, pranzi in giardino, confessioni, bisticci, abbracci, rivelazioni, dubbi. Sono andato a prendermelo e staccarlo dalla sua radice, dal portico della casa in cui ha dimorato per anni e l’ho portato via con il consenso dei suoi precedenti proprietari e forse anche un sorriso buono dal cielo.

È un divano viaggiante, il mio. Ho visto foto che lo ritraggono, in un tempo in cui ancora non lo avevo neppure ancora mai sfiorato, circondato dai volti di chi me l’ha concesso in dono, con generosità e fiducia. E lui con me ci è venuto, sereno e rassicurato. Anche noi due abbiamo fatto qualche piccolo trasloco. Insieme abbiamo sognato in qualche caldo pomeriggio estivo e ci siamo svegliati di soprassalto nel mezzo di un incubo, nel cuore della notte. Mi ci sono seduto arrabbiato, felice e sconsolato. “Come si dorme bene sul quel divano!” è la benedizione eterna che porto con me nel salone. Una magia fatta di ricordi non miei e nuovi ricordi da costruire.

Sarò certo testardo, incoerente, intollerante, verboso, emotivo, impulsivo; avrò fatto tanti errori; avrà pianto, si sarà preoccupato, arrabbiato, intristito più di qualcuno, più di una volta, per causa mia. Epperò, almeno una volta nella vita, senza dover celebrare nessuna occasione, oltre ogni schema, io ho meritato di portare via e custodire i ricordi di un divano di famiglia. Oggi scandisce tutti i miei giorni, è il mio destriero e io il suo cavaliere. La mia armatura è il mio pigiama e la mia arma più potente è il ricordo di quel giorno in cui l’ho preso sulle spalle e l’ho portato per sognare mille nuovi ricordi.

Quando qualcosa è nostro, diventiamo suoi e non c’è più possessore e possedimento, ma si diventa una storia comune e, un giorno, molte storie da raccontare.