L’unico ciclamino di un bosco autunnale di foglie morte. L’ultima lacrima di rosa di un letto quieto. L’unica riga dritta fra mille righe coricate. L’unico “sarò” in un mare di “sono stato”.
Senza timidezza, senza dubbi su come fare. Hai trovato il luogo, triangolato il sole, scelto l’inclinazione giusta che ti porti un rigagnolo d’acqua senza annegarti, odorando, con fiuto di semino il terreno coperto di marroni foglie arricciate.

Proprio quando non c’è niente, ci vuole coraggio. Quando non c’è nessun rumore, ci vuole voce. Quando nessuno chiede niente, bisogna avere le risposte pronte, perché il tempo ci coglie alle spalle. Bisogna addestrarsi a salire veloce per quando ce ne sarà bisogno, proprio quando non ci vuole nessuno. Perché potrebbe non servire mai, ma se servisse e non fossimo pronti alla vita, la vita ci guarderebbe con sguardo deluso.

E per decidere il colore non ne servono mille altri, né buone sincromie, ma uno che ci si confaccia. Conviene scegliere il colore che ci somiglia, poiché nessun altro sarebbe più giusto di uno che viene da dentro. Come una nota stonata, ma cantata con il cuore e con voce mossa di pianto.

Così nasce la vita in mezzo al nulla. Non richiesta, bensì ingenita.
Si spinge fuori con forza di montagna e caccia la punta del capo prima ancora degli occhi e segue spingendo quando ancora non ha neppure visto cosa c’è fuori, chi l’aspetta. Se mai c’è qualcuno che aspetta. Cocciuta è la vita, che tace e agisce, non deve, né offre risposte a nessuno. Conosce una strada sola. Una che va verso avanti, verso fuori, verso la luce…

Così, in un bosco che crepita di foglie addormentate, ho visto un ciclamino tirarsi su forse un po’ incoscientemente, coraggioso di certo. Come quegli amici che sono sempre fuori luogo, che stridono ovunque siano e non sai se siano controtempo per opzione o maledizione.

Quanto a me, io ero solo di passaggio. Ho alzato il capo di meraviglia e l’ho chinato per rispetto, come un’ode a quel coraggio di ciclamino. Che tra le ombre di foglie morte non ha fatto un gemito, né un gesto. Con lo sguardo fisso al cielo, se pure mi ha visto con la coda dell’occhio, mi ha visto solo passare, fermarsi e sparire di nuovo nel buio del resto del bosco d’autunno.

Mawida accoglie tutti, non guarda il colore della pelle, non chiede referenze né documenti. Se vuoi, puoi stare. Sa farti posto, silenziosamente. Mawida conosce milioni di forme di vita eppure sa di non sapere tutto. Si avvicina, sa sfiorarti senza farsi scoprire. Mawida comanda esseri che volano, che strisciano, che scorrono sottoterra, che nutrono, che catturano particelle piccolissime e ne fanno una nuova, alta vita. Mawida ha pazienza infinita, vive tutti i tempi. È sempre diversa; è sempre se stessa. Mawida conosce il codice segreto del mondo e vede ciò che non si vede. Ha uno sguardo di madre e molta fede. Ama le cose che accadono lentamente e tenta di abbracciare strettamente tutto ciò che può contenere. Ha un volto fatto di caos e un’anima santa e ordinata. Conserva la vita e la tutela sopra ogni cosa, ma come tutti gli spiriti saggi sa dire addio a chi ha esaurito il proprio tempo. Mawida sparisce in se stessa e sa chiudersi in un piccolo chicco di vita per mille anni e risorgere fragorosa cento pianti più tardi, dopo dieci generazioni di fedeli che hanno atteso. Mawida non soffre la fame, né il sonno, né il dolore, ma sa quando è il momento di nutrire, di dormire, di curare. Mawida è severa, ma le sue regole sono scritte nelle fondamenta della terra e seguirle, per i giusti, ha un costo molto basso. Mawida, che vede nel tempo, non condanna il figlio per il padre; né il passo per il piede, ma ha uno sguardo caldo di burro che arriva fino al bandolo di ogni matassa.

bosco bosque

Mawida non è nata ieri. C’era quando l’universo era chiuso in un guscio d’uovo e non pesava più di un gesto pensato. Mawida è ferma e attenta. È pronta in ogni momento perché era lì nel buio del mondo e ne ha conosciuto il vero male. Mawida, piangendo, ha affilato armi letali e studiato strategie e agguati ineguagliabili. Mawida osserva. Ha dentro lo spirito di tutte le bestie più argute, che da essa hanno mangiato l’astuzia per divenire ombre negli angoli, occhi accesi nella notte, movimenti precisi e ineluttabile morte. Mawida sa dov’è nascosta la candela della vita e può soffiarci sopra, per salvare il mondo. Mawida è una sola, ma è il guardiano di ogni singola essenza. Quando ride accende la Terra e il suo respiro sa rinnovare tutto ciò che sembra perduto, ma non ride mai per niente e difende il suo buon nome senza mostrare pietà. Come una madre ti tiene sotto scacco con il filo di uno sguardo. È come un buon compagno di battaglia che sa usare le sue armi e per questo va stimato e temuto, insieme. Mawida non perde mai nessuna partita, perché con essa hanno un debito in sospeso gli spiriti più antichi del mondo e ogni suo sussurro è un’invocazione che non possono declinare. Mawida non sa odiare, per questo le sue pene sono giuste. Ha temuto e vibrato di paura, per questo sa vedere il timore in chi la offende e usarlo per scacciarlo. Mawida non ha un esercito. Mawida è un’armata, eternamente schierata dalla parte del bene.

*Mawida: parola mapuzugun che significa “bosco nativo”, “foresta”, “montagna”, “habitat di alberi, arbusti, piante spontanei e tutti gli esseri viventi a esso connessi”

Mi piace sentirmi alternativo, più o meno quanto ogni altra persona. E come ogni altra persona, faccio alcune cose appositamente per storto.
Quando bevo il caffè non prendo la tazzina per il manico, mi scotto e mi incazzo, ma mi sento vivo.
Al ristorante, soprattutto se è uno di quelli con la puzza sotto al naso, ordino una Fanta. E se non ce l’hanno, sono io a storcere il mio.
Non ho un letto, dormo su un divano.
Ho visto Creta con la neve e i Carpazi in una calda giornata d’estate.
Porto l’orologio a destra.
Entro spesso in chiesa, ma poco all’ora della messa.
Porto le scarpe qualche numero più grandi del necessario, perché non mi piace sentire la tomaia che stringe le dita.
Sono cresciuto accanto al mare, ma non ci vado mai. Proprio mai.

Poi mi rendo conto che faccio alcune cose al contrario sapendo di farlo; che dentro ce l’ho al verso giusto quelle cose…che allora è tutta una storia da guardare dal di fuori e vale quel che vale. Ma il mio letto è così comodo perché per essere un divano è il divano più comodo del mondo. Ogni giorno mi ospito sul divano e ogni giorno sono accolto come ospite su un divano assai comodo su cui dormire. Ogni caffè preso è una sfida vinta contro il caldo, un sorso che scotta sulla pelle e che resta.

Così, in vacanza, mi ha dato un sorso di vita vedere il galoppo di una mucca. Lo sforzo che non è il tuo. La vita che fa un salto in te. Verso la luce o verso il buio, non importa cosa porti, ma è qualcosa che sa di stridore e di sbieco e di ultimo minuto. E ti fa sentire…fiù…salvo per un pelo.

Accanto alle placide mucche ruminanti e pesanti, quella si è sollevata da terra -appena qualche centimetro, lo ammetto- ed è stato come vederla volare. Alcune cose non te le aspetti e accadono comunque e senti di non essere niente: i tuoi calcoli, le cose del mondo che pensi di sapere, di conoscere, di saper leggere. Alcuni gesti non sai prenderli, spuntano dagli angoli della strada come uno sconosciuto che ti torna alla mente. E senti che tutta quella piccolezza ti fa stare comodo nel mondo, che sei il pezzo giusto per il vuoto lasciato.

È vero però che non tutto illumina allo stesso modo. Nelle crepe del mondo si nascondono strane bestie. Accanto all’amata vacca -volevo baciarla, tanto era bella- si ergeva enorme, cattiva e puntuta un’armatura di ferracci lucidati, alti fino al cielo, con cannoni e ganci e cavi e funi e travi e carrucole e motori e rigagnoli di liquidi bollenti: un’impianto da sci addormentato, nel culmine dell’estate. Come un mostro incantato da un intruglio impastato dalle arniche, le primule, gli Edelweiss e le ortiche del bosco. In incanto sicuro, certo, indissolubile, fino all’arrivo della stagione del gelo. Tanta potenza, altezza, rotazione e tanto slancio annientati dal caldo pacioso delle erbe secche e scottate che cantano assopite una ninna nanna cimbra.

Ci aspettiamo che accada, ci aspettiamo che non accada. Ci aspettiamo che lei ci sia, che nella stanza ci sia un letto, che l’orologio sia su un polso invece che su un altro. Che il rosa sappia di fragola. Che le cose pesanti stiano a terra e le cose enormi non si stanchino mai di macinare la propria forza. Mentre il mondo, all’oscuro delle nostre aspettative, compie i suoi artifici con fare sereno e si burla dei nostri pensieri muti.